All’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano, 27 allievi del corso di Design del Tessuto hanno reinterpretato – immedesimandosi nella parte più creativa del “saper fare” – le iconiche creazioni “popular” di Elio Fiorucci (1935-2015). Il quale da lassù, in compagnia dei suoi angioletti, starà sorridendo compiaciuto di tutto quello che Love Therapy. Alfabeto Elio Fiorucci sta mettendo in scena nella ex Chiesa di San Carpoforo in un’atmosfera da glamour meditativo. La sorella Floria Fiorucci, che dirige il marchio Love Therapy ideato nel 2003 dal designer e stilista milanese, ha pensato a questo progetto dopo aver dialogato con la docente Paola Maddaluno sul fascino di un brand che punta fin dagli inizi sulla voglia di libertà e sul sentirsi in sintonia con la street culture.
Il risultato è un dialogo sorprendente (e per certi versi inatteso) quello che vede protagoniste le mitiche Fiorucci Stickers che negli Anni ’80 documentavano una fumettosa realtà fatta di Electron, Pin-Ups, Dance, Romance, Swim, Fiorucci Story; e le iconografie realizzate dagli allievi di Brera con strisce di stoffa non cucite, tessuti jacquard con fili in lurex, abiti senza taglia, zip scultoree, lampo stampate, corde lunghe, ricami mano-macchina su pvc e su panno nero, led su materiale trasparente, forme dipinte con acrilici fluorescenti, pennellate cromatiche. E per (ri)dare vita a temi ricorrenti come fumetto, collage, colori fluo, l’iconico e giocoso Nano, l’iperconsumistico supermarket, sono stati utilizzati i linguaggi di moda, pittura, decorazione, video. Love Therapy. Alfabeto Elio Fiorucci fa parte di un progetto “diffuso” a cura del corso di Design del Tessuto. L’obiettivo è connettere mondo della formazione, archivi di moda e imprese del settore tessile-manifatturiero. La sera del 6 febbraio c’era il “sold out” alla vernice di questa coinvolgente mostra. Tutto il bello della Love Therapy si è rimesso a dare spettacolo, con un amorevole pensiero rivolto al genio di Elio Fiorucci. Noi di CoolMag lo vogliamo ricordare con questa intervista che ci ha rilasciato nell’aprile del 2008.
Elio Fiorucci. Dagli Angeli alla Love Therapy
Pensa positivo e parla positivo, Elio Fiorucci. E quando mi ha raccontato la sua moda sbocciata a Milano in una primavera da Flower Power flirtando con la Swinging London, ho capito che la sua dolce rivoluzione fatta di cromatismi ispirati alla Pop Art, oggetti di “good design” e capi d’abbigliamento che irradiano ottimismo anche solo a guardarli, ha lasciato un segno anticonformista e “friendly” nell’immaginario collettivo. C’erano una volta gli angioletti vittoriani a timbrare il romantico ottimismo che Fiorucci regalava al mondo. E quando ha cominciato a ragionare su un nuovo marchio ha sorriso, si è guardato come sempre attorno captando umori, segnali, sensazioni; e gli è venuta voglia di rilanciare la sua persuasiva rivoluzione. Perché se è vero che i tempi cambiano, s’induriscono, ti lanciano occhiatacce, l’amore non cambia né ti delude. Al contrario, ti fa vedere il lato positivo della vita. Basta seguirlo, assecondarlo, lasciarsi andare alla Love Therapy. Farsi prendere per mano da un esercito di gnomi in technicolor. Fidarsi dell’estro creativo di Elio. Oggi come ieri.
Cominciamo dal 31 maggio 1967, data d’inaugurazione del tuo primo store nel cuore di Milano, in piazza San Babila.
«Un evento non pianificato, che fece il botto anche perché in città si era sparsa la voce che sarebbe successo qualcosa di straordinario. Un negozio all’avanguardia, laccato di bianco e illuminato da lampade fotografiche, progettato in un paio di mesi dalla scultrice Amalia Del Ponte. Al vernissage arrivarono Adriano Celentano e la sua compagna di allora, Milena Cantù, a bordo di una Cadillac rosa con tutto il Clan al seguito. Lamberto Sechi, direttore di Panorama, incaricò Miriam De Cesco di fare il reportage. Non vedevano l’ora di scoprire cos’altro avrei combinato dopo gli stivali di plastica colorata e quelli in pelle arancio e mandarino che mi ero inventato nel negozio di scarpe e pantofole nella vicina via Torino. Le riviste di moda mi conoscevano già da un paio d’anni come un personaggio un po’ fantasioso. Adriana Mulassano, per la copertina di Amica, aveva fatto fotografare una modella in costume da bagno con sandali infradito Fiorucci, sormontati da una grande margherita e accompagnati da un paio di orecchini in tema».
Per i capi d’abbigliamento del debutto, ti sei ispirato più alla Summer of Love di San Francisco o al Sgt. Pepper londinese?
«Più a Londra, che racchiudeva in Carnaby Street il cuore pulsante della moda. A quel mondo così diverso, moderno, liberale e anarchico che avevo sperato potesse esistere e che ho “importato” nel negozio milanese. Mi conquistai l’amicizia di Barbara Hulanicki, ideatrice e mattatrice del rivoluzionario store Biba e dello stilista più raffinato dell’epoca, Ozzie Clarke, che diventò designer delle mie collezioni».
Com’è nato il logo con gli angioletti?
«Conversando con l’architetto e designer Italo Lupi. Gli dissi che volevo far capire al pubblico quanto Fiorucci non fosse la classica azienda commerciale, ma un’attività commerciale e spirituale. Pensammo così ai 2 angeli, stampati sui sacchetti del negozio, che idealmente uscivano dalle chiese per incamminarsi sui marciapiedi cittadini. Angeli intesi come compagni delle nostre vite; persone care che non sono più qui con noi ma rimangono al nostro fianco volendoci bene anche quando ci capita di sbagliare. Feci realizzare una t-shirt con la scritta “Guarda: forse accanto a te c’è un angelo”».
L’immagine è il tuo punto di forza. Ricordo shopping bags e manifesti con le pin-ups Anni ’50 che dialogavano con l’immaginario Pop americano…
«In carriera ho avuto una grande fortuna: la capacità di rompere gli schemi decontestualizzando tutto quello che mi piaceva per poi proiettarlo nell’immagine Fiorucci. Mi piacevano gli angioletti? Li ricontestualizzavo trasformandoli in icone “pop”. Idem per le pin-ups. E quando qualcuno mi domanda cosa avessero a che fare gli angeli con le donne nude, rispondo che ogni donna nuda è come un angelo: un dono divino».
Nel ’76, a New York, nasce il Fiorucci Store.
«Sulla Cinquantanovesima Strada, a Manhattan, vicino a Bloomingdale. Progettato da Ettore Sottsass e Andrea Branzi».
Hai sempre dato grande risalto ai designers…
«Cogliendone il lato artistico. La capacità di uscire fuori dagli schemi. Penso a Michele De Lucchi che disegnò tutta una catena di negozi per noi; e al mio caro amico Alessandro Mendini che presentò a Milano i suoi Arredi Vestitivi: mobili in compensato leggero indossati e fatti sfilare da stupende modelle».
Nel Fiorucci Store ci capitò anche Andy Warhol…
«Venne ad autografare col romanziere Truman Capote copie della sua rivista Interview. Andy andava pazzo per il mio negozio, ritrovo “in” per tutti i newyorkesi. Offrivamo caffè gratis, ospitavamo artisti, ricevevamo le visite di Madonna, Jean-Michel Basquiat…».
Come l’hai conosciuto?
«Merito di Maripol, all’epoca fidanzata del fotografo Edo Bertoglio che girò il film New York Beat dedicato a lui, prodotto da me e da Rizzoli Usa e presentato nel 2000 al Festival di Cannes col titolo Downtown ’81. Nelle pause fra una ripresa e l’altra, Basquiat scarabocchiava su fogli di carta che io passavo alla mia ragazza e agli amici. Disegni come quelli, adesso, valgono almeno mezzo milione di Euro. Ne avessi conservato uno, andrei in pensione senza pensarci su troppo! Jean-Michel era un ragazzo infinitamente buono. Di estrazione borghese, aveva deciso di condurre un’esistenza da homeless, lontano dalla famiglia. Quand’era senza soldi (quasi sempre, agli inizi della sua carriera) bazzicava per supermercati raccogliendo le monete che qualcuno perdeva. Se ne stava lì, ore, in attesa di racimolare il suo piccolo tesoro».
Nei Diari redatti da Pat Hackett, mercoledì 21 dicembre 1983 Warhol annota: “Andato da Fiorucci, è proprio un luogo divertente. È tutto ciò che ho sempre voluto, tutta plastica. E quando esauriscono qualche articolo non credo lo ripetano”. Cosa ti piace ricordare di lui?
«Che un giorno, anziché alla Factory decise di portarmi nella sua inaccessibile casa. E mi fece,vedere un dipinto dell’800 inglese che raffigurava una capra su una pietra. In quel preciso istante, Andy riuscì a decifrare senza conoscerlo il mio passato: quando, durante la guerra, trascorsi l’adolescenza in campagna dove vivevano le mie zie. E la mia casa ideale era quella dei contadini. Io mi sentivo (e mi sento) un contadino: proprio come Andy, che aveva capito tutto dimostrando grande sensibilità».
Nel ‘77, sempre a New York, hai organizzato l’opening dello Studio 54.
«Il coronamento del grande progetto di Steve Rubell e Ian Schrager, 2 ragazzi di Long Island che mi contattarono per concretizzare l’idea di una discoteca al 254 della Cinquantaquattresima Strada, a Manhattan, all’interno di un ex studio televisivo. Decisi di sponsorizzare la cosa e chiamai Antonio Lopez, collaboratore di Warhol, che per l’inaugurazione del locale disegnò i costumi per un balletto di Alvin Ailey. Quel giorno organizzai per alcuni giornalisti italiani un volo charter da Milano. Atterrammo a New York alle 3 del pomeriggio e alle 8 ½ di sera ci ritrovammo davanti allo Studio 54. Strada transennata dalla polizia, folla oceanica, potevano passare solo le Limousine che scaricavano celebrities a getto continuo. Cercai di entrare ma i buttafuori mi respinsero. Fu un segno del destino: meglio restare fuori e osservare affascinato quella parata di stelle, anziché annoiarmi in sala sorseggiando champagne. Seduto sul marciapiede fino alle 2 di notte, felice come un ragazzino, vidi uno spettacolo che non dimenticherò mai».
C’è anche Keith Haring, fra le celebrità che hai conosciuto. Il quale, nell’84, trasformò letteralmente il negozio in San Babila…
«Fu Tito Pastore, mio art director e amico fraterno, a propormi di svuotarlo per farglielo affrescare come facevano i più grandi pittori nelle cattedrali. Prima di decidere se accettare o meno, Keith chiese un parere a Andy Warhol che gli rispose: ‘”Vai a Milano, perché quando Fiorucci decide di fare una cosa, ha un senso”. In 2 giorni e 2 notti, dando vita a un’incredibile performance, Haring fece il più bel restyling possibile del negozio».
Qual è il capo d’abbigliamento simbolo dello stile Fiorucci?
«I jeans. Parola di Bruce Springsteen che una volta dichiarò: “Quando il Metropolitan Museum mi ha chiesto di esporre un oggetto che simboleggiasse mia personalità, ho dato la mia chitarra e i miei blue-jeans Fiorucci”».
E Fiorucci, oggi, viene declinato nella Love Therapy.
«Cioè fare la terapia dell’amore, che equivale ad amare il prossimo dando con i miei prodotti un messaggio etico dell’amore».
Con una nuova icona…
«Lo gnomo. Frutto della mia fantasia e del mio inguaribile amore per la campagna».
Love Therapy. Alfabeto Elio Fiorucci
Fino al 21 febbraio 2019, ex Chiesa di San Carpoforo – Accademia di Belle Arti di Brera, via Formentini 12, Milano
Catalogo Nuova Libra Editrice
Foto: Colleen Baranger, Love Therapy
Elio Fiorucci
Isabelle Sabella & Ilaria Ardito, La ragazza fumetto
Illustrazione tratta dall’Archivio Love Therapy
Chiara Milesi, Nanogioco