Impossibile non fare i conti con quel dandy cosmopolita. Quel maître à penser dallo straordinario fiuto sintonizzato sulle nuove realtà dell’arte. Si dialoghi di action painters, neo dadaisti o pop artisti; si tiri concretamente in ballo la migliore arte americana del secondo ‘900, il nome da pronunciare è quello del gallerista Leo Castelli (1907-1999). Il critico d’arte-filosofo-pittore Gillo Dorfles (1910-2018), anch’egli triestino, l’ha definito così: «Leo era un uomo davvero elegante. Troppo ben vestito. Il resto è Storia dell’Arte». Convinzioni di chi l’ha conosciuto negli Anni ’20, al Bagno Savoia di Trieste; e lo ricorda con affetto nell’introduzione della biografia Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America, scritta dal critico e curatore di mostre Alan Jones. Il quale, per più di 20 anni, ha avuto la fortuna di frequentare Castelli a New York e lo racconta minuziosamente: partendo dal padre Ernesto Krauss, banchiere di origini ungheresi ebreo come la madre, Bianca Castelli, da cui Leo erediterà il cognome nel 1919 quando Trieste tornerà italiana. Gioventù mondana, quella del loro figliolo: spensieratezze estive vissute in compagnia di Dorfles, della futura pittrice surrealista Leonor Fini, del letterato Bobi Bazlen. Poi, studi in Giurisprudenza a Milano e un posto fisso, da assicuratore, con trasferimento a Bucarest. E proprio qui, l’amore che sboccia per Ileana Schapira, poi Sonnabend, gallerista d’arte (1924-2007). Viaggio di nozze a Parigi nel ’32, e nuovo approdo nella Ville Lumiére qualche anno dopo. Lei ha fiuto per l’arte. Lui lo assorbe a poco a poco. In place Vendôme, fra l’Hôtel Ritz e la boutique di Elsa Schiaparelli, inaugura con l’architetto e arredatore René Druin una galleria di mobili e quadri. Al vernissage c’è tutta la Parigi che conta. Ma il tempo è scaduto.
1939: tempo di guerra. Leo e Ileana, 2 anni dopo, atterrano a New York. Marcel Duchamp, Piet Mondrian, Fernand Léger e André Breton, laggiù, testimoniano che il baricentro dell’arte mondiale si è spostato oltreoceano. Frequentando il Museum of Modern Art, Castelli scopre l’arte moderna europea: Surrealisti, Espressionisti. Nomi ai quali i francesi avevano prestato scarsa attenzione. A metà degli Anni ’40, i galleristi newyorkesi rifiutano la nuova arte americana: l’Espressionismo Astratto dipinto da Jackson Pollock, Willem De Kooning, Mark Rothko, Franz Kline… Leo, viceversa, crede negli outsiders: artisti capaci di osare l’inosabile. Li coccola, li consiglia, li espone nel soggiorno al quarto piano del numero 4, Settantasettesima Strada Est: la sua prima, “quasi” galleria d’arte. Quella vera, la Leo Castelli Gallery, viene inaugurata al 420 di West Broadway. E là, leggendaria, rimarrà per più di 40 anni a battezzare neodadaisticamente i combine-paintings di Robert Rauschenberg, le flags e i targets di Jasper Johns; a inventare la Pop Art fumettistica di Roy Lichtenstein e quella macro-pubblicitaria di James Rosenquist. L’arte di Andy Warhol, invece, bussa all’aurea porta di Castelli nel ’64: ma non ci sarà mai grande feeling, tra i 2. In seguito, il gallerista lancerà la Minimal Art e la Conceptual Art; l’astrazione pura di Frank Stella, i “segni” narrativi di Cy Twombly, i neon di Dan Flavin. Nel ’96, con 2 divorzi alle spalle, sposa la storica dell’arte italiana Barbara Bertozzi. Il 21 agosto ’99 muore novantaduenne nella sua abitazione di Manhattan, rendendo immortale la leggenda del mitteleuropeo che osò riscrivere da zero l’arte a stelle e strisce.
Alan Jones, Leo Castelli. L’italiano che inventò l’arte in America, LIT Libri in Tasca, 431 pagine, € 12.90
Foto: Leo Castelli con Ivan Karp e Andy Warhol, 1966