Ogni volta che esce un nuovo libro di testo scolastico per le Superiori, che si picca di essere aggiornato sulla letteratura italiana degli ultimi giorni, cerco Cosimo Argentina ma non lo trovo. Ci sono invece autori magari più televisivi, o altri che hanno avuto la fortuna di essere venduti negli autogrill; ma Cosimo Argentina, a cui pure sono già state dedicate tesi di laurea, presente nell’Enciclopedia Treccani, studiato all’Université de Montpellier in Francia, non lo si trova. Eppure, in un mondo che consuma ciò che produce con velocità supersonica, anche a livello letterario se non sei inserito in qualche media o in qualche conventicola, Argentina regge da 20 anni solo con la forza dei suoi libri.

Sono suo amico dal 1991 e intervistarlo rappresenta un vantaggio e uno svantaggio: il vantaggio è che si ha una conoscenza approfondita non solo della persona che scrive ma anche della pagina scritta: perché ne hai parlato quando l’idea era ancora in nuce, hai potuto leggere in anteprima ciò che aveva creato, poi hai letto in bozze e solo alla fine il libro definitivo. Puoi insomma arrivare dove ben difficilmente potrebbe farlo un critico, anche esperto. Lo svantaggio è che la normale oggettività che si ha nei confronti di un estraneo deve, in questo caso, essere uno sforzo aggiuntivo poichè un amico verrà sempre visto, tendenzialmente, sotto una luce migliore. Abbiamo consumato insieme tantissime conversazioni, abbiamo pubblicato anche un libro in comune, Messi a 90. Le partite più raccapriccianti dell’Italia ai Mondiali e altre storie di ordinaria follia calcistica, l’hanno già intervistato vari giornalisti ma un amico mai. Tuttavia c’è sempre una prima volta, e davanti a una bottiglia di grappa la cosa è filata via bene.

Scontato esordire chiedendoti quando hai cominciato a scrivere, e se era solo un piacere o pensavi a qualche prospettiva…
«Ho cominciato tardi. A differenza della tendenza del momento che sforna baby fenomeni della penna, io ho provato a scrivere racconti e una parvenza di romanzo durante il periodo universitario. Aderisco senza remore alla logica di Henry Miller: prima si vive e poi si scrive, altrimenti non sapresti di cosa scrivere e rischieresti di scimmiottare i libri che hai letto senza riuscire a mettere nella pagine la giusta dose di sangue e ferite. Anche come lettore sono stato un diesel, attardandomi per anni e anni sui fumetti che comunque considero un’arte di gran livello».

Raccontami del tuo sforzo per farti conoscere. Nel ’91 stavi già lavorando a dei romanzi, ma il primo è stato pubblicato nel ’99…
«Dall’85 al ’99 ho ricevuto 14 porte in faccia. Scrivevo, proponevo, incassavo il rifiuto, scrivevo, proponevo eccetera eccetera. Mandavo i manoscritti buttati giù con la Olivetti a destra e a manca un po’ alla cieca, alla carlona. Nessun santo in paradiso e niente agenti o intermediari, sicché riuscire a farsi leggere con la necessaria benevolenza era complicato. Ma devo riconoscere che quello è stato un apprendistato fondamentale. Se oggi posso lavorare a un romanzo con alle spalle altri 15, lo devo a quei 14 anni di rifiuti perché mi hanno dato il tasso di credibilità che c’era in me. Se non hai il fuoco dopo 2, 3, 10 rifiuti, lasci perdere e fai altro. Se non accade significa che o sei completamente pazzo, o hai qualcosa da dire e lo vuoi fortemente dire».

A chi porti gratitudine se oggi sei uno scrittore?
«A Fernanda Pivano, che lesse i miei racconti infilati nella buca delle lettere in via Senato 13, a Milano. Le devo un gesto di fiducia nei miei confronti. A Raffaele Crovi, che non mi pubblicò ma indicò la via per mandare i manoscritti in modo mirato. Ad Andrea G.Pinketts, di cui ho sempre apprezzato l’onestà intellettuale e l’originalità di scrittura, che mi ha presentato Il Cadetto senza nulla chiedere in cambio. Ad Alda Merini, per le chiacchierate al Bar del Baffo sui Navigli. A quelle persone che conoscevo prima della pubblicazione e che apprezzavano le mie storie senza dover necessariamente attaccarsi ai riscontri editoriali. Alla mia sposa, che non mi ha mai messo il bastone fra le ruote quando in apparenza (e forse non solo) me ne stavo nello studio a scrivere, invece di fare consulenze o chessò altro».

Sei di Taranto, ma ormai la maggiorparte della vita l’hai passata prima a Modena e poi soprattutto in Brianza. Che ruolo hanno avuto nella tua narrativa?
«Su Taranto ho scritto tanto e lì mi sono abbeverato per raccontare le mie storie, anche perché il momento più espressivo della vita di un uomo è l’adolescenza e la post adolescenza. Modena è stato il distacco; e il primo romanzo è venuto fuori dai diari che scrivevo nella camerata, invece di smontare il fucile o studiare il manuale delle armi da fuoco. La Brianza è l’altra vita di Cosimo Argentina: dove lavoro, dove mi sono sposato e dove ho avuto 2 figli. La mia vita è abbastanza appartata, ma è qui che mi sono apparecchiato l’esistenza per poter scrivere e cercare di pubblicare. Ho pochissimi amici, ma quelli che ci sono li considero il mio patrimonio personale. La Brianza mi ha dato una dimensione di cosa potevo essere fuori dal guscio, dal mio quartiere, dalle coordinate che percorrevo a occhi chiusi».

So che sei un lettore onnivoro. Ami tantissimo la narrativa, ma ogni scrittore ha dei fari. I tuoi quali sono? E perché?
«C’è stato il periodo Edgar Allan Poe e H.P. Lovecraft. Poi quello della Lost Generation con Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. È arrivato anche il momento della Beat Generation con Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti ma soprattutto Ken Kesey. Il periodo sudamericano con Garcia Marquez e quello francese con Louis-Ferdinand Céline, Victor Hugo e Jean-Claude Izzo. Poi ci sono le schegge come William Faulkner, Ágota Kristóf, Cormac McCarthy, Philip K. Dick. Leggo pochi italiani, se non quelli di un recente passato come Giuseppe Berto, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia, Umberto Simonetta, Piero Chiara, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Luigi Pirandello, Dino Buzzati, Mario Rigoni Stern. Ma la tua domanda chiede anche un perché; e allora ne scelgo 2 creando una strana coppia: Fëdor Dostoevskij e Charles Bukowski: il primo perché quando uno riesce a emozionare, a descrivere e a scendere così a fondo nell’animo umano, ha centrato il bersaglio e tu sai che a quelle profondità potrai solo avvicinarti da lontano. Il secondo perché la sua piccola rivoluzione fu quella di dire le cose come stanno e trovarci dentro anche spunti poetici. Il che non è cosa da poco».

Ormai sono trascorsi 20 anni dal tuo esordio. Com’è cambiato il mondo dell’editoria ai tuoi occhi di scrittore puro?
«Si è “andywarhollizzato”. Si dà una chance a tutti. 15 minuti di gloria saltando molti passaggi. Si pubblica molto e oserei dire troppo. L’editoria non è la macchina per far soldi ideale. Ci sono campi dove il guadagno è maggiore, eppure passa questa idea che chi pubblica libri deve campare: e allora fioriscono avventurieri che pur non conoscendo un gran che di questo mondo, vi si lanciano a capofitto. Di contro, molti considerano l’arte di scrivere qualcosa alla portata. Basta un pc e una stampante. Ma forse non è proprio così».

Io sono abituato ai tuoi lavori, ma a un neofita la tua narrativa può talvolta apparire un pugno allo stomaco: in tutti i romanzi c’è profondo realismo umano e in uno in particolare, Vicolo dell’acciaio dedicato alla tragedia dell’ILVA, c’è anche un profondo realismo sociale. Ci si potrebbe domandare: perché è necessario essere così duri?
«Non è una scelta, ma una necessità perché alcune storie vanno scritte così. Ogni storia vuole il suo codice. Si potrebbe allora evolvere la domanda sul perché scelgo determinate storie, ma la risposta sarebbe deludente perché un autore non va mai verso le storie, accade esattamente il contrario. Gli esempi di Vicolo dell’acciaio o di Cuore di cuoio sono emblematici. Pur non essendo stati studiati a tavolino avevano in sé già uno svolgimento e io non ho dovuto far altro che metterli giù, lì, sulla pagina».

Giudicare il proprio lavoro è difficilissimo, ma ti chiedo uno sforzo: quali sono i tuoi romanzi meglio riusciti e perché.
«Mi chiedi davvero una sforzo improbo. Diciamo allora Bar Blu Seves perché ha in sé una lunga storia dove sentimenti, dolore e vita si mescolano adeguatamente. Dico anche Vicolo dell’acciaio, perché nessuno prima di allora aveva osato scrivere di quel mondo che adesso, narrativamente parlando, è molto di moda».

Un’escursione fuori (ma non troppo) dalla letteratura. Siamo entrambi appassionati di calcio, tu però hai giocato anche nelle giovanili del Taranto con Angelo Gregucci che fece carriera anche in A; e al calcio hai dedicato uno dei tuoi romanzi più, oserei dire, teneri: Cuore di cuoio, dove un ragazzino sogna la Serie A. Secondo me non potrebbe sognarla ancora come il protagonista. E secondo te? E nel caso, cos’è cambiato?
«Così come per la letteratura, anche il mondo del calcio è cambiato. Ma forse i sogni restano perché sono tali. Piuttosto cambiano le dinamiche. Oggi un ragazzo che gioca in una squadra giovanile pensa che l’immagine, i soldi e la gloria vengano prima del puro divertimento. Ai  miei tempi si facevano meno calcoli. Si giocava e basta. E se poi si vedevano alcune maglie storiche, ci si emozionava e si fantasticava vedendosi indossarle in uno stadio gremito di gente».

Concludendo, vuoi parlare ai lettori di CoolMag del tuo ultimo romanzo Saul Kiruna, requiem per un detective?
«È incentrato su 2 aspetti. Da una parte lo scenario è apocalittico, distopico, da fine corsa: e Milano non è più la capitale dell’economia nazionale bensì un luogo di confine, una bidonville dove i reietti non sono in grado di osservare nessun altro orizzonte se non quello piovoso della ex grande metropoli. Il secondo aspetto è la figura di un investigatore che viene assoldato da un noto trafficante d’armi per ritrovare la figlia Anna. Un banale accordo professionale diventa una calata negli inferi, perché il detective è già di suo perso fra scannatoi, bucai e losco mondo sotterraneo; e in più si trova a combattere con forze equivoche, fatte di sette esoteriche e poteri finanziari. All’inizio per lui sarà solo un modo per guadagnare, ma ben presto in gioco sarà la sua sopravvivenza. In tutto questo, c’è l’idea che il mondo così come lo stiamo gestendo è destinato a durare poco».

E dopo un ultimo bicchierino e un abbraccio alla sua bella famiglia, ci si congeda sicuri che avremo ancora tante cose da dire. Anche se non siamo più giovani.