In occasione della terza edizione di Scintille di editoria, il festival dedicato all’universo del libro che si è svolto a Parma nei suggestivi spazi di ColonneVentotto, ho partecipato alla presentazione del romanzo La vita di chi resta (Mondadori, 252 pagine, € 18.50) scritto da Matteo B. Bianchi (stimata conoscenza milanese alla quale mi accomuna una cara amica, la scrittura, la musica di David Bowie e l’omonimìa del cognome di mio marito Stefano) che ho rivisto volentieri dopo aver lasciato da 2 anni e ½ il capoluogo lombardo per questa città a misura d’uomo.

L’evento mi ha invogliata ad approfondire il contenuto del suo libro: la dolorosa vicenda del suicidio del suo compagno. Matteo è riuscito con sensibilità a dar voce alla propria sofferenza sprigionando una scrittura semplicemente sincera, che mi ha fatto leggere La vita di chi resta lasciandomi “tirare dentro” ogni pagina, dall’inizio alla fine. Oltre che letteraria, Matteo ha dalla sua l’esperienza del linguaggio immediato dell’editor e dell’autore televisivo: per la radio ha scritto la trasmissione quotidiana Dispenser (Radio Due Rai), mentre in tv è stato fra gli autori di Victor Victoria (La7), Quelli che il calcio (Rai Due), X Factor, E poi c’è Cattelan (Sky Uno). Proprio con Alessandro Cattelan, ha coronato il sogno di fondare e dirigere la Accento Edizioni, riservata agli scrittori esordienti.

Nell’incontro pubblico, ha candidamente espresso che era convinto di aver scritto solo per una nicchia di lettori. Il libro, invece, è letteralmente esploso andando in ristampa a 2 giorni dalla pubblicazione, tutt’oggi è alla quarta ristampa, è entrato in classifica e sono in corso traduzioni in vari paesi nel mondo. Nel testo viene riportato un dato spaventoso: ogni anno, in Italia, 4.000 persone si tolgono la vita. Matteo ha confidato che un telegiornale nazionale ha disdetto l’intervista con lui dopo aver verificato l’argomento che trattava. A questo proposito, l’Ordine dei Giornalisti raccomanda di affrontare con misura e attenzione i casi di suicidio: per rispetto delle vittime e dei congiunti; per evitare di innescare fenomeni di emulazione. Sempre più spesso, invece, a imporsi è l’ipocrisia di una stampa morbosamente sensazionalista.

Matteo B. Bianchi ha insistito su un concetto: mentre per gli “aspiranti suicidi ” esistono centri di prevenzione, per chi resta non esiste al mondo un protocollo medico scientifico che lo aiuti a superare il trauma della morte, ma gruppi di volontari che sono spesso vittime “sopravvissute ” alla tragedia della perdita del loro caro. L’autore ha raccontato così il dramma, suo e di tante altre persone.

«Per 22 anni non ho scritto una riga, non ho preso neanche un appunto. Era un’idea che non mi abbandonava, ma che continuavo a rimandare perché il suicidio è uno dei più grandi tabù della società contemporanea. Non se ne parla mai, o perlomeno è presente nei film, nelle serie televisive e nei romanzi ma sempre in modo romantico, come snodo narrativo. A un certo punto uno dei personaggi si suicida, si crea uno scombussolamento ma la storia va avanti. Qualcosa che si concentri su quel gesto e sulle sue conseguenze, non c’è. Se di suicidio si parla poco, di chi rimane non si parla mai, da nessuna parte. Era necessario spezzarlo, questo silenzio. Dal punto di vista emotivo, era difficile parlare di questo tema anche con gli amici e le persone a me vicine. Scrivere questo libro ha significato parlare della vicenda più dolorosa della mia vita: ho aspettato tanto a farlo, perché dovevo emotivamente trovare la forza di affrontare tutto quello che comporta la pubblicazione: rendere pubblica una vicenda tenuta fino a quel momento segreta. Sono felice di averlo fatto perché La vita di chi resta sta colmando un vuoto, ha toccato tanta gente, è dedicato ai sopravvissuti».

«Io stesso, quando ho perso S., mi sono sentito abbandonato. Nel 1999 avevo appena pubblicato il mio primo romanzo, Generation of Love; e questi 2 libri sono la perfetta, mancata sincronìa: nel primo parlavo di felicità nel momento in cui ero il più triste al mondo; ora parlo di dolore nel momento in cui sono sereno. È un modo per celebrare S., per tenerlo sempre vivo, per ribadire l’importanza che ha avuto nella mia vita. È con questo pensiero che sono andato avanti. Chi vive un’esperienza del genere, sviluppa anche giochetti mentali: giorno per giorno devi trovare una motivazione per superare il dramma e guardare avanti. Mai come nella stesura di questo testo ho percepito una scissione: fra me stesso persona e me stesso scrittore. Come persona, c’erano cose che avrei voluto dimenticare e accantonare; come scrittore, dovevo non dimenticare e non accantonare poiché sapevo di doverle scrivere. E quando ho iniziato a farlo, non riuscivo veramente ad ammetterlo e per un po’ di tempo ho finto con me stesso che stavo prendendo appunti che prima o poi avrei ripreso. Arrivato alla centesima pagina, ho psicologicamente accettato che stavo scrivendo un libro. Ultimato il manoscritto, non essendo in grado di giudicarlo ho chiesto alla mia editor in Mondadori di leggerlo e dirmi se funzionava».

«Il testo è costruito a frammenti, a capitoletti molto brevi (a volte solo 3 o 4 righe) e senza un ordine cronologico: adesso, il giorno della tragedia, i giorni precedenti, i mesi successivi, non c’è mai una data con un riferimento esplicito. Per me aveva un senso, ma non sapevo se per il lettore fosse sufficientemente comprensibile. La editor ha ammesso di non essere riuscita a capire come avessi fatto, ma che tutto era comprensibile. Confesso che non l’avevo fatto leggere a nessuno, mentre di solito quando scrivo un libro lo faccio leggere agli amici-lettori, chiedo loro consigli. In questo caso ero insicuro del giudizio altrui, e se qualcuno mi avesse detto che non funzionava avrei mollato tutto. È stato un processo diverso, rispetto agli altri libri che ho pubblicato. Nel mio primo romanzo raccontavo positivamente la mia vita e lo concludevo con l’incontro con il personaggio principale che in quest’ultimo libro si toglie la vita. Non volevo che fosse una sorta di tradimento, rispetto alla vita reale: la mia vicenda ha avuto uno sviluppo così drammatico… Un suicida non arriva necessariamente a togliersi la vita dopo “secoli ” di disperazione. È del tutto imprevedibile: sei stato felice con una persona e le cose andavano bene, per cui ha senso raccontarle. Sono stato molto attento a non fare descrizioni fisiche, né geografiche. Lui viene citato con una S iniziale e basta, i nomi dei suoi famigliari sono inventati, ho raccontato ciò che era necessario raccontare, preservando la parte personale per rispetto mio e anche nei suoi confronti».

«Ci sono cose che non hanno bisogno di tante parole: anche in 3 righe puoi raccontare cosa è successo senza scavare nel torbido. Questo testo è scritto a flash, alcune parti sono per così dire “illuminate” ma il disegno se lo fa il lettore nella sua testa ed è un aspetto che ho fortemente voluto e cercato. La vita di chi resta non è stato terapeutico, né mi ha aiutato a mettere un punto su questa storia. La scrittura terapeutica fa bene a chi la scrive, lo dicono anche gli analisti ai loro pazienti. È un esercizio per te stesso, non per comunicarlo agli altri. Nel mio caso, invece, è stato pensato per essere letto. Mi hanno chiesto come si può superare il trauma. È sbagliato il verbo: non lo superi, semmai impari a conviverci. Non ci sono alternative: a un certo punto devi accettare la scelta che qualcun altro ha fatto. Descrivere la sensazione che prova il sopravvissuto, è quasi inspiegabile per gli altri. Ogni lutto è lacerante, ma lo è ancora di più quando è improvviso: un incidente stradale o una malattia fulminante, il giorno prima quella persona c’era e il giorno dopo non c’è più. È straziante, uno strappo nella tua esistenza, ciò che provi è dolore puro. Quando invece l’atto di morire è volontario, ti lascia con un bagaglio pesantissimo: domande senza risposta, ripensamenti, sensi di colpa. Provi odio e rabbia verso chi si è suicidato, ti incolpi di non averlo salvato perché non hai compreso i segnali premonitori, provi un amore disperato, provi sensazioni incompatibili fra loro, percepisci che forse è questa l’anticamera della “follia”. Nessuno, in quei momenti, aveva idea di dove mi trovassi. Ed è inutile consigliare in questi casi “vai in vacanza”, oppure “cambia casa”. In questi mesi, i numerosi messaggi che ho ricevuto hanno sottolineato soprattutto una cosa: sono riuscito a trasmettere ai lettori quello che avevano bisogno di leggere. Ed è un bellissimo traguardo, per uno scrittore».

Meglio parlare con sincerità e senza pregiudizi di temi disperanti come il suicidio, piuttosto che evitarli per non esserne emotivamente coinvolti. Per questo, Matteo, ti dico grazie di cuore.