«Facevo la cantante di giorno e la barista di sera». Sono le prime parole che Hannah Merrick pronuncia nel già lodatissimo album di debutto dei King Hannah, I’m Not Sorry, I Was Just Being Me. Una quarantina di minuti dopo, il disco si chiude con It’s Me And You, Kid, dove la giovane cantante ringrazia Dio per quell’incontro con Craig Whittle, proprio nel locale in cui lavorava e da cui non vedeva l’ora di scappare: lei che gli insegna come pulire i tavoli e prendere le ordinazioni dei clienti, mentre lui, che l’aveva vista cantare su un palco qualche anno prima, le propone di mettersi a fare musica insieme seduta stante.

Lo raccontano nelle loro canzoni, adottando un suono minimal ed efficacissimo: «Non vogliamo suonare puliti o levigati. Vogliamo suonare reali, dinamici e autentici», ha precisato Craig in un’intervista. Missione compiuta: i King Hannah fanno “musica vérité” raccontata senza filtri, con uno stile piano e asciutto ma anche fascinosamente sfuggente e sempre sul filo del rasoio, condito da un pizzico di umorismo e di perfidia. In Go-Kart Kid (Hell No!), Hannah canta della sua adolescenza selvaggia da maschiaccio, contrappuntata da una sorta di scherzoso coro greco; in Big Big Baby augura a un ex amante prossimo a diventare papà di strozzarsi con un raviolo cinese a pranzo (“almeno sarebbe una cosa un poco divertente/e più eccitante che starsene lì seduta/a guardarti mentre li mangi a uno a uno”).

Hannah Merrick e Craig Whittle

Vengono da Liverpool ma non seguono alcuna corrente, mentre le ambientazioni delle loro canzoni (anche nei video, fra prati, boschi, trattori e strade notturne di campagna) sono più bucoliche e periferiche che metropolitane. Citano fra le principali influenze gli Smog, i Mazzy Star, i Portishead, Sun Kil Moon, i Red House Painters, PJ Harvey e persino Neil Young, il lo-fi fai da te degli anni 90 e tutto quadra, anche se quella loro musica affilata, tagliente e chitarristica, ipnotica e spettrale, riflessiva e un po’ imbambolata, non è riprodotta a bassa fedeltà ma con un sound secco, preciso, profondo, dettagliato nei suoi pochi ingredienti manipolati con convinzione e abilità: la voce estenuata ma magnetica di Hannah, i timbri chitarristici saturi e aspri di Craig, qualche synth e pianoforte sullo sfondo, basso e batteria dai rintocchi cupi e dai ritmi delicatamente insistenti e ossessivi.

Dal loro isolamento autoimposto al palcoscenico mondiale si stanno muovendo con una velocità che lascia sbalorditi loro per primi, considerando che il debutto discografico (con il singolo Crème Brûlée e l’Ep Tell Me Your Mind And I’ll Tell You Mine, 6 brani tutti assenti nella scaletta dell’album) è roba di 1 anno e ½ fa, senza sforzo apparente e con un atteggiamento spontaneo al limite del naïf: nessuna posa e molta naturalezza, immagine ordinaria (lei magrissima e con i capelli corvini, lui con barba, baffi, capelli lunghi, occhiali e un berrettone di lana perennemente calcato in testa) per una musica che di ordinario ha ben poco (soprattutto oggi).

Per loro il classico inciso pop è un optional, spesso le canzoni non lo richiedono: a partire dall’iniziale A Well Made Woman, un’orgogliosa dichiarazione d’indipendenza femminile aperta da un arpeggio tenebroso di chitarra acustica accompagnato da un agile fraseggio di piatti e rullante, prima che la voce di Hannah si prenda la scena e l’orizzonte venga scosso da lampi elettrici e da orizzonti inquieti, scuri, minacciosi. Giocano spesso e volentieri sui contrasti, come quando poco dopo nel testo di All Being Fine assicurano che va tutto bene dipanando un blues albionico del 21° secolo sottilmente nervoso e inquietante, fra increspature sonore, distorsioni ed echi di sirene. Sono campioni dell’understatement, eppure il loro messaggio arriva forte e chiaro: le lievi dissonanze e le atmosfere glaciali di Big Big Baby potrebbero ricordare anche i primi Cure e i Joy Division, non fosse che i King Hannah sembrano sempre trattenere a freno le emozioni e non esprimono altrettanta disperazione; mentre una chitarra alla Neil Young, acida e ululante, strattona l’andamento catatonico e gli sbalzi d’umore di The Moods I’m In e detriti di trip hop bristoliano si spargono su Foolious Caesar, dove lei non può fare a meno di amare un lui che continua a comportarsi come un bambino.

Go-Kart Kid (Hell No!) aggiunge un giro ancestrale e folkeggiante di acustica a una voce recitante; Ants Crawling On An Apple Stork è una ballata stropicciata e un po’ storta cantata da Craig; I’m Not Sorry, I Was Just Being Me una cantilena sognante e narcotica oltre che un’altra dichiarazione di disarmante sincerità sulla voglia di fare le cose a modo proprio, mentre lo strumentale cinematografico e americaneggiante di Berenson introduce It’s Me And You Kid, l’epilogo a 2 voci con un’introduzione chitarristica che sembra arrivare da un polveroso disco country & western degli anni 50 e un ritornello a 2 voci che finalmente si apre squarciando il velo plumbeo aleggiante sul resto del disco. È la celebrazione (contenuta e sotto tono, ci mancherebbe) di un sogno diventato realtà, di un sodalizio a cui i 2 timidi ragazzi del Merseyside sanno di potersi aggrappare e che dà senso alle loro vite, festeggiato prima che tutto si dissolva di nuovo in un pulviscolo di echi e di feedback.

Finito il disco ti viene voglia di riascoltarli, per provare ad afferrare lo spirito di quella loro musica lineare ma sgusciante, misteriosa e ammaliante, che come quella dei Mazzy Star o dei Cowboy Junkies (“obbligati a suonare The Trinity Sessions sotto la minaccia di un coltello e con la testa martellante dopo una sbornia di whisky”, scrive bene il sito della Rough Trade) fa della lentezza una filosofia di vita, estetica e musicale. Suonata, lo si percepisce subito, con assoluta sincerità, senza ammiccamenti o la voglia di compiacere altri se non se stessi: “Se non ti piace quel che canto/beh, non sei tenuto ad ascoltarmi/puoi semplicemente spegnermi” (The Moods I Get In).