Per molti della mia generazione nata nei primi anni 60 del secolo scorso, l’approdo al mondo del jazz, alla sua magia e alla sua perenne evoluzione è avvenuto gradualmente. Siamo partiti quasi tutti dal grande rock progressivo degli anni 70: da quei gruppi che hanno segnato la storia come Emerson, Lake & Palmer (dopo un loro concerto, ricordo di avere acquistato la prima batteria e da lì ho iniziato la mia avventura con piatti e tamburi), Yes, King Crimson, Genesis, Colosseum, Gentle Giant, Bill Bruford, fino ad arrivare ai più recenti Rush, il sommo Neil Peart e la sua batteria magica.

Quando il progressive ha esaurito la sua spinta propulsiva ripiegandosi su se stesso, molti di noi sono rimasti folgorati dal jazz e dalle sue strutture così accattivanti. Ne siamo rimasti letteralmente rapiti e da allora non abbiamo fatto altro che approfondire, studiare, scavare nella memoria storica, andare indietro fino alle origini, fino al dixieland e al blues rurale, per meglio capire e apprezzare quella musica che così tanto stava cambiando (in meglio) le nostre vite. Dal bop, Bird (ossia Charlie Parker) e i beatnik, siamo risaliti a Louis Armstrong, alla tromba di Satchmo che abbiamo confrontato con Bix Beiderbecke e i bianchi di allora; all’orchestra di Duke Ellington, a Count Basie, arrivando poi alla new Thing, al free, a John Coltrane, a Ornette Coleman, a Cecil Taylor… Senza mai scordare la tradizione, l’hard bop, il mainstream, le big band, Miles Davis, Gil Evans. Né abbiamo trascurato di seguire ogni rivolo che questa musica ha generato fino ad arrivare ai nostri giorni, all’incontro con l’hip hop, con il drum’n’ bass, con l’elettronica, i campionamenti e le nuove proposte.

Brad Mehldau

Il jazz è diventato la linfa vitale del nostro quotidiano: abbiamo ascoltato migliaia di dischi, assistito a tutti i concerti possibili, letto riviste specializzate, studiato libri e manuali di teoria e improvvisazione. Abbiamo suonato, cercato di riprodurre le musiche dei nostri idoli, siamo cresciuti con loro e oggi possiamo dire di aver acquisito quella coscienza critica, quella consapevolezza di appartenere a una comunità in continua evoluzione. Pochi di noi, però, hanno avuto il coraggio di ammettere di essere partiti dal rock (sia pure di grande valore e spessore artistico) per giungere ad amare svisceratamente il jazz.

Brad Mehldau ci rende giustizia e con l’ultima sua opera discografica, Jacob’s Ladder, mette in chiaro quel processo evolutivo che ci accomuna. L’album, infatti, è un tuffo nella sua adolescenza, alle origini della sua storia musicale ed è un commosso omaggio a quelle sonorità, quelle atmosfere, quelle suite strumentali che tanto hanno accompagnato i nostri pomeriggi dietro lo strumento, tentando di riuscire a ripetere quelle complesse trame melodiche. Da quei pomeriggi trascorsi nel box dietro casa o nelle cantine, Brad è diventato “il pianista” per eccellenza, sulle cui spalle poggia il peso di una tradizione solistica che fino al ritiro dalle scene di Keith Jarrett lo vedeva grande interprete, ma con molte meno responsabilità. Brad è oggi il continuatore della tradizione del trio pianistico: colui che meglio di ogni altro porta avanti e impreziosisce il lessico della formula trio: da Bill Evans a Ahmad Jamal, da Paul Bley a Keith Jarrett, da Chick Corea a Herbie Hancock.

Il pianista americano con il batterista Mark Guiliana

Ma non è soltanto un pianista jazz che utilizzando la formula del trio ne espande i confini: è un artista a 360° che spesso ha deviato dal trio per potersi esprimere in contesti orchestrali, oppure elettrici ed elettronici (vedi il capolavoro Taming The Dragon del 2014, in compagnia del grandissimo Mark Guiliana alla batteria), ha concepito album che flirtavano col grande rock impiegando un drummer come Matt Cameron; si è esibito in duo con Kevin Hays, con Chris Thile e ha esplorato a modo suo le composizioni di Johann Sebastian Bach, per sua stessa ammissione «il primo jazzista, il primo grande improvvisatore della storia della musica». Forse è proprio da Bach che dovremmo tutti partire per poi approdare alle ultime tendenze jazzistiche. Da lì nasce tutto. Da lì nascono i prodromi di una continua ricerca che ci conduce fino al presente.

Jacob’s Ladder è un omaggio ai suoni, ai ritmi e alle tensioni creative che seppur in ambito progressive sconfinano nel jazz più iconoclasta. Partendo da quelle atmosfere, Brad Mehldau approda a una Panmusica che racchiude in sè tutte le musiche della sua carriera e della sua vita. Impreziosito dalla presenza di compagni d’avventura quali Mark Guiliana, Chris Thile, John Davis, Joel Frahm, Becca Stevens, Cécile McLorin Salvant e Lavinia Meijer, questo disco non ha eguali nel panorama musicale contemporaneo. Sarebbe stato fin troppo facile cadere nel didascalico, riproporre pedissequamente e senza alcuna emozione quei suoni. Ma Brad è fine musicista, compositore, interprete: quindi ha concepito 1 album che ci rimanda sì a quel passato glorioso ma lo trasporta ai giorni nostri arricchendolo di un elemento che spesso manca nella musica odierna: la sincerità. È questo il tratto distintivo di un lavoro discografico che vuole essere un ponte fra passato e presente, fra passato e futuro prossimo.

A Mehldau non importa categorizzare ciò che propone, sia esso jazz, rock, pop o chiamatelo come preferite. Questa è musica che parte dal cuore, che parla di emozioni, di sentimenti, di esseri umani e delle loro fragilità. Ritmi rock travolgenti si accompagnano a cavalcate soliste epiche e sontuose (tranquilli, Brad non accoltella l’Hammond come faceva Keith Emerson!) e ad imporsi è la Bellezza di una musica senza categorie, definizioni stilistiche, confini, pregiudizi. Forse Jakob’s Ladder farà storcere il naso ai puristi (esistono ancora?), ma catturerà chi dalla musica vuole coraggio, sfrontatezza, idee. Questo è un ascolto per coraggiosi, che lascia un gusto in bocca destinato a persistere per lungo tempo.

Considerazione finale: solo un jazzista dal pedigree prestigioso come Brad Mehldau poteva riuscire in un’impresa del genere perchè sa osare, confondere le acque, avventurarsi in simili crepacci espressivi senza rimanerne vittima, semmai uscendone vincitore: come in Heaven, pezzo da cui emergono tracce di Starship Trooper degli Yes. Tirate fuori dall’armadio i jeans a zampa d’elefante, lasciate scorrere la nostalgia e buon viaggio. Ne vale davvero la pena.