C’è stato un periodo, negli anni 70, in cui travestirsi era diventato un must. Qualsiasi gruppo, per poter aspirare a un minimo di fama, doveva puntare anzitutto sull’effetto scenico che era determinato dagli abiti e dal make up. Premesso che il light show lo utilizzavano quelle band che se lo potevano permettere, il “cambio d’abito” sembrava invece un obbligo. Non lo riteneva necessario, però, chi aveva già fama di suo come i Rolling Stones dove era solo Mick Jagger a indossare qualcosa che somigliasse a un abito di scena; o i Pink Floyd, che salivano sul palco con i vestiti che indossavano per andare al pub.

C’è stato poi il caso del rock decadente che esprimeva, nei suoi vertici, connotazioni culturali alte: dalle suggestioni teatrali di David Bowie, al dandysmo di Bryan Ferry. Tendenza che si è vista anche in Italia con Renato Zero, gli Osanna, il Rovescio della Medaglia e Franco Battiato ai tempi di Pollution, i quali non disdegnavano costumi di scena o trucchi teatrali.

Devo insieme a David Bowie, che nel 1977 commentò: «Questa è la band del futuro»

È in quest’ottica che sono arrivati dalla Francia i Rockets. Inguainati da improbabili tute da alieni, metallizzati nei volti, con i testi delle loro canzoni quasi sempre dedicati allo spazio, erano il frutto di un’operazione commerciale, all’epoca criticatissima dalla stampa impegnata, forse perché erano sbarcati in discoteca sebbene la loro cover elettronica, ipnotica, deformata ma fascinosa di On The Road Again dei Canned Heat, oppure One More Mission dall’album Galaxy, fossero brani meritevoli di attenzione.

Contemporanei – e più simili a loro di quanto si creda – sono stati i Devo, americani, nati da un’idea dei fratelli Casale (Gerald e Bob) e del chitarrista Bob Lewis. Affini ai Rockets per l’elettronica totale che dava a entrambe le formazioni un suono ipnotico; e per l’evidente gusto del travestimento. Se i Rockets dialogavano di spazio, di alieni, di altri mondi, i Devo parlavano del progressivo degrado di questo mondo; e su tali presupposti poggiava la loro profondità intellettuale: tant’è che nel loro caso non si può parlare di progetto esclusivamente commerciale.

Intanto c’era l’idea che il mondo, ma in particolare la società americana, anzichè evolvere avesse cominciato a de-evolvere, cioè a istupidirsi. Facile individuare una sorta di filiazione con Frank Zappa, ma alla loro critica cercava di adeguarsi l’insieme scenico: dagli abiti (tute total body dai colori accesi), ai buffi copricapi di plastica, fino ai testi sarcastici e alla musica artificiale.

L’esordio, geniale, è una versione de-evoluta di (I Can’t Get No) Satisfaction dei Rolling Stones, costruita su suoni frammentati, un cantato a scatti e accompagnata da un video perfettamente sintonizzato. Questa ripetitività meccanica, questa ironica disumanizzazione, forse non era estranea alla loro provenienza: Akron, nell’Ohio, era la tipica città industriale popolata da uomini-macchina. A ciò va aggiunto l’interesse nei confronti di Brian Eno e di David Bowie, all’epoca in pieno trend elettronico, che sicuramente li hanno influenzati.

Meno gettonati di Satisfaction ma altrettanto significativi sono Uncontrollable Urge e soprattutto Mongoloid, brano (oggi inconcepibile) da delirio del politicamente corretto, piuttosto orecchiabile nel suo ritmo scattoso. Il testo, ovviamente, non si riferisce a chi è nato con la Sindrome di Down ma, saggiamente, all’insipienza mentale dell’uomo del 20° (e 21°) secolo ridotto a minus habens. In questa dimensione antropologica si scorge l’impronta zappiana, ancora più marcata se pensiamo a pezzi come Bobby Brown.

Sostanzialmente, la parabola dei Devo si gioca in 3 dischi usciti fra il 1978 e il 1980: Q: Are We Not Men? A: We Are Devo!, Duty Now For The Future e Freedom Of Choice. Il migliore (con i pezzi succitati) è il 1°, mentre il 2° sembra mostrare il desiderio di trasformare quella musica “devoluta” in una sorta di stralunata rock dance: dall’assurda intro elettronicamente elisabettiana di Devo Corporate Anthem, fino a Blockhead e alla brevissima Timing X. Il 3° album, infine, propone una discomusic ballabile, se non melodica come accade nella title track. C’è da dire, però, che Girl U Want (il 45 giri estratto dall’Lp) oltre a riscuotere un buon successo in discoteca ha registrato il maggior successo di vendita della band. Dopodichè la loro musica si è smarrita in un manierismo elettronico facilmente dimenticabile.

Tuttavia, mentre i Rockets non hanno avuto nessuno che possa essersi definito da loro influenzato, senza i Devo non sarebbe mai esistito quel divertentissimo giullare di “Weird Al” Yankovic che in 1 dei suoi pezzi, Dare To Be Stupid del 1985 con relativo videoclip, si è dimostrato in tutto e per tutto Devofriendly.