In una recente intervista rilasciata a Nate Chinen per la National Public Radio, Keith Jarrett aveva annunciato l’uscita di un nuovo album in piano solo, risalente a quel ciclo di concerti che aveva portato alla realizzazione di Budapest Concert; l’ultimo tour prima del ritiro forzato dalle scene, dovuto ai 2 ictus e alla conseguente impossibilità di usare la mano sinistra. Una beffa del destino, per colui che viene considerato il più grande pianista di tutti i tempi. Non pensiate a un’esagerazione, ma considerate tutta l’opera di questo genio che ha sempre anteposto la musica ai guai personali e alle disavventure.
Nel 2016 Jarrett effettua un lungo giro europeo di concerti, destinato a toccare anche Vienna e Roma. Questa data, in particolare, si rivelerà compiuta e assai “tirata”, debilitante per l’energia profusa durante l’esibizione. Keith utilizza un canovaccio ben preciso per strutturare il concerto: una suite divisa in vari movimenti che suddivide di volta in volta in capitoli e sequenze. A fare la differenza, da concerto a concerto, è il rapporto con la tonalità prescelta; e l’esaurire ogni possibilità armonica e melodica gli consente di elaborare appieno un discorso musicale compiuto fatto di introduzione, sviluppo, variazioni, ripresa e conclusione, come avveniva nei recital pianistici dell’800 romantico. Se in quelle esibizioni prevaleva la volontà di sfoggiare il proprio talento e di mettere in mostra le abilità tecniche che di volta in volta il compositore sottoponeva all’esecutore, qui Jarrett è al tempo stesso un compositore e un interprete che compone e suona “in diretta” senza avere il tempo di elaborare, correggere, eventualmente cancellare errori, indecisioni, imprecisioni.
In Bordeaux Concert (ECM) Keith è in perfetto stato di forma e il suo “flusso di coscienza” pianistico è un viaggio all’interno del suo subconscio, del suo mondo emotivo, del suo essere artista a 360°. Si mette a nudo, si dona al pubblico e a chi lo ascolta: senza remore, senza maschere, senza timore di commettere errori mostrando le proprie fragilità. Il piacere dell’ascoltatore sta nel riscoprire contenuti diversi e diversi modi di interpretarli. La memoria corre alla dichiarazione del batterista Jack DeJohnette, suo partner nello straordinario Standards Trio insieme al bassista Gary Peacock, quando afferma che «Keith non suona mai due volte nello stesso modo. Ogni volta è sempre diversa, ci aggiunge qualcosa di personale e ci stimola a seguirlo nel discorso. A dialogare».
Cellule melodiche servono da spunto per elaborazioni di rara bellezza, dove emerge il suo pianismo fatto di ritmo sostenuto, a volte impossibile, ma anche di momenti di una delicatezza esagerata in cui il suo retaggio blues e la discendenza dai grandi maestri del pianismo classico si fondono in una sequenza senza soluzione di continuità. E ci vuole una gran dose di coraggio svelare al pubblico la propria intimità e le proprie emozioni. Suggerirei a Manfred Eicher, che ha prodotto questi recital, di riunire in un cofanetto tutte queste esibizioni solistiche poiché si tratta di un unico discorso, sviluppato in diversi capitoli, che consentirebbe di apprezzare l’evoluzione di ogni singola cellula musicale, sia essa ritmica o melodica.
© Daniela Yohannes/ECM Records
Bordeaux Concert dà l’opportunità a Jarrett di esplorare il suo lato più “pastorale”. Si percepisce la volontà di stare nel registro medio, come già avvenne in The Köln Concert (1975); di non eccedere negli acuti, nelle note più alte, non consone a una confessione in musica. Bianco e nero come i tasti del pianoforte, Yin e Yang, chiaro e scuro, luce e ombra, tutto e il contrario di tutto, sono gli elementi cardine della narrazione musicale da parte di uno degli ultimi, autentici uomini d’arte. Il destino gli ha giocato uno scherzo terribile impedendogli di suonare. Ci ha privati di colui che ha fatto della purezza del suono, fin dai tempi di Facing You (1972), il suo credo. Ci ha privati di un artista che come un camaleonte ha saputo mutare pelle, colore, idee, atteggiamenti dai tempi dell’esordio con Art Blakey al quartetto meraviglioso di Charles Lloyd; alla band elettrica di Miles Davis; al duo con Jack DeJohnette; al quartetto europeo con Jan Garbarek; alla straordinaria stagione del quartetto con Paul Motian, Charlie Haden e Dewey Redman.
Una carriera vissuta sempre al massimo, sempre ai vertici, talvolta in discussione (ebbene sì: c’è ancora qualcuno che ha il coraggio di storcere il naso quando si parla di Keith Jarrett…). Ma è proprio nei suoi recital solistici che si ha modo di apprezzare appieno il talento di questo piccolo, grande uomo da Allentown, Pennsylvania: i suoi mugolii, il suo non stare mai fermo, il suo “fare l’amore” con lo strumento. Ma soprattutto quel tocco e quella magia irripetibili, inimitabili.