Rischi di finire in un circolo vizioso (in termini di marketing discografico), se riconosci di fare musica “troppo soul per essere folk, troppo folk per essere pop e troppo pop per essere soul ”. Come quella di Jonathan Jeremiah, cantautore nord londinese più famoso in Europa continentale (Francia, Belgio, Olanda, Austria, Germania) che in patria; e che con il suo 5°, bellissimo album Horsepower For The Streets, uscito l’anno scorso a settembre, avrebbe meritato di finire in tutti i poll e in tutte le liste dei migliori dischi del 2022.

Ancora relativamente giovane (40 anni), aria da moderno hippy con barba, baffi e capelli lunghi, Jonathan ha nella sua voce baritonale, roca e malinconica (un po’ come quella dell’americano Ray LaMontagne) un’arma tagliente: lo specchio dell’anima di un musicista che ama imbracciare la sua chitarra di notte, quando le strade sono deserte e c’è tempo per elaborare quanto si è visto e vissuto nell’arco della giornata.

Da ragazzo ha ascoltato Bill Withers, Scott Walker, Cat Stevens, Serge Gainsbourg, John Martyn e Nick Drake. E si sente. È cresciuto in una famiglia operaia, ha frequentato da piccolo la Wembley Arena accompagnando gli spettatori a prendere posto, ha girato l’America da costa a costa e ha trovato la sua vera dimensione artistica allungando lo sguardo oltre confine per realizzare un progetto multinazionale (gran parte del nuovo disco è stato composto a Saint-Pierre-De-Côle, nelle campagne intorno a Bordeaux, durante le pause di un tour francese, mentre le registrazioni hanno avuto luogo in una chiesa monumentale riconvertita di Amsterdam). Fregandosene delle etichette e dei confini tra generi («Chiunque sia bravo a fare questo lavoro dovrebbe attingere a varie fonti, raccogliendo bastoncini e pietre preziose ovunque, come una gazza ladra», ha dichiarato qualche mese fa a un sito australiano), si muove su sentieri che da Withers e da Terry Callier portano fino al primo Michael Kiwanuka, inglobando eleganti orchestrazioni da grande soirée anni 60 e 70.

Il risultato, Horsepower For The Streets, è un disco strumentalmente ricco e stratificato ma anche omogeneo nei suoni e nelle scelte stilistiche: la sezione d’archi della Amsterdam Sinfonietta composta da 20 elementi e arrangiata da Damiano Pascarelli, emiliano trapiantato ad Amsterdam, accarezza, avvolge, screzia e colora le canzoni di Jeremiah ritmate dalla sua chitarra acustica, da una batteria discreta e da un basso sempre in primo piano con riff e pulsazioni che in Small Mercies, il pezzo più funky, sensuale, notturno e ricco di groove della collezione, ti arrivano direttamente al petto. Specialista in partiture per big band e orchestre, nonostante la giovane età (35 anni), Pascarelli vanta collaborazioni di prestigio con gente come George Benson e Chaka Khan ed è un valore aggiunto dell’album, cui contribuisce anche come coautore della title track, il pezzo iniziale e forse migliore di tutti: un folk soul elegante e commovente che sarebbe piaciuto a Withers, vellutato ma increspato dalla grinta vocale di Jonathan; una esortazione alla speranza e all’azione in cui (come nel suggestivo video) si accende un contrasto cromatico tra il bianco e nero della sezione ritmica e i colori sgargianti un po’ flower power degli archi. Le voci femminili aggiungono un senso di piacevole vertigine che risucchia anche altre canzoni, tra il battito soul scandito dal basso di una Ten-Story Falling che all’assenza di gravità fa pensare già dal titolo e l’onirica circolarità di Youngblood.

Ha spesso la suggestione di una colonna sonora cinematografica la musica di Jeremiah, che ha assimilato i classici e li rielabora con padronanza e naturalezza in pezzi come You Make Me Feel This Way, con un accenno di bossa nova e un umore autunnale (il coautore è Ruben Samama, un altro olandese, polistrumentista e attore chiave incaricato anche dei missaggi), mentre Cut A Black Diamond aggiunge un latente senso di insoddisfazione e accenti più scuri e bluesati; The Rope un ritmo più veloce e amari disincanti quotidiani (“Ho un affitto da pagare/Sto esaurendo le risposte/quel che so è che/sto finendo i soldi/e pure la corda”) e Restless Heart – forse il pezzo più immediato – una irrequietezza esistenziale di fondo e un inciso pop decisamente accattivante. Stanno tutte nella prima metà di un album che in coda, oltre a un altro intrigante soulmodern vintage” come Lucky inserisce gli episodi meno allineati: una Early Warning Sign in cui la Amsterdam Sinfonietta accompagna in crescendo una pensosa ballata per voce e pianoforte; e la conclusiva Sirens In The Silence, dove sparisce la sezione ritmica e il suono si solleva su una nuvola intessuta di archi e voci.

Con Horsepower For The Streets, oltre a uno slogan ottimista ed efficace (“il cambiamento soffia nella brezza/cavalli vapore per le strade”) Jonathan Jeremiah ha creato un disco affascinante, sexy, confidenziale, intimo, profondo e rassicurante (anche se nei testi non rifugge dai turbamenti quotidiani ed esistenziali). Un vero genere di conforto, come un buon liquore o una stecca pregiata di cioccolato, che culla dolcemente anima e corpo.