L’agricoltura e la sovranità alimentare consegnate alle multinazionali, il clima avverso e imprevedibile, i piccoli contadini sommersi dai debiti e costretti a vendere la terra. Il rock and roll e le chitarre che non alimentano più i sogni ribelli di una generazione in cerca di altri suoni e di altri modelli. Suona familiare? È il 1985 ma potrebbe essere il 2022. È l’America ma potrebbe essere il resto del mondo occidentale. È Scarecrow (nei negozi dal 4 novembre), il disco che cambia la vita a John Mellencamp, riproposto su doppio Cd con un remix e una rimasterizzazione entusiasmante (“Suona come un album completamente nuovo“, commenta l’autore nelle note redatte dal veterano Anthony DeCurtis, e non gli si può dare torto) guarnita dal solito contorno di rarità, demo e rough mix.
È il 1985 e John, che ogni giorno getta uno sguardo ai campi coltivati dell’Indiana mentre percorre l’autostrada che da casa lo porta al suo studio di registrazione, comincia a riflettere con l’amico George Green (coautore di successi come Hurts So Good e Crumblin’ Down) su quanto sta succedendo alla sua gente. Quella gente che quando loro erano bambini si incontrava di sera, nei weekend, per far festa e acquistare i prodotti degli agricoltori locali; il pilastro fondante di una comunità che trent’anni dopo rischia di scomparire. Capisce che non può starsene zitto mentre coltiva i suoi sogni di gloria e che deve dare una sterzata decisa alla sua musica dopo avere cominciato, 2 anni prima, a sondare le viscere dell’America profonda con Pink Houses: uno dei suoi primi hit, un inno dell’heartland rock che lo ha catapultato in cima alle classifiche. Ma ora vuole di più, guarda a Bob Dylan, a Bruce Springsteen e agli adorati Rolling Stones come a concorrenti diretti, anche se parlando alla Rock and Roll Hall of Fame di Cleveland, nel 2016, spiegherà che in quel momento ambiva piuttosto a diventare come Tennessee Williams, come John Steinbeck o William Faulkner. A raccontare lo stato della nazione.
Ha un ciuffo ribelle alla James Dean e un giubbotto di jeans. È il solito “piccolo bastardo” scorbutico e scontroso che ora vuole fare di testa sua anche se è ancora costretto ad accettare qualche compromesso (quel nomignolo che odia, ‘Cougar‘, impostogli anni prima dal manager e che ancora sta lì ingombrante sulle copertine dei dischi, incuneato fra nome e cognome). Non vuole suoni da radio FM come quelli di American Fool e il coproduttore Don Gehman è pronto ad assecondarne i desideri. Vuole, invece, approfittare della compattezza e della tigna di una band di acciaio temperato forgiata da una intensa attività on the road. Vuole esaltare quelle chitarre acustiche ed elettriche asciutte, taglienti, sferzanti (le suonano ancora Mike Wanchic e Larry Crane, ex compagno di scuola, intrecciandosi alla maniera di Keith Richards e Ronnie Wood). Vuole in 1° piano nel missaggio la sua sezione ritmica tonante e dal cuore forte: Toby Myers al basso e quel batterista schiacciasassi, Kenny Aronoff, che tutti gli invidiano e che può tranquillamente rivaleggiare con Max Weinberg della E Street Band. Per fargli scaldare i muscoli e spiegare il sound che ha in testa, li esercita in sala prove con i grandi classici del garage anni 60: 96 Tears di ? And The Mysterians, I Fought The Law del Bobby Fuller Quartet, Wild Thing dei Troggs, Talk Talk dei Music Machine e decine di altri pezzi da bar band che hanno imparato a suonare da ragazzi.
Ma intanto riscopre anche le radici e il valore della tradizione, nei testi più che nella musica, perché Scarecrow sarà un disco elettrico e tempestoso mentre per fisarmoniche e violini ci sarà tempo in seguito. Un disco da tempi bui, perché intanto piove sugli spaventapasseri e sanguinano gli aratri. “Il raccolto che abbiamo fatto crescere l’anno scorso non è stato sufficiente a ripagare i prestiti. Questa primavera non abbiamo potuto comprare le sementi da piantare e la banca dell’agricoltura ci ha pignorato le terre”. Sembrano lamentele raccolte da un quotidiano o da un notiziario televisivo e invece sono le parole di Rain On The Scarecrow, il pezzo cupo e incazzato che apre il disco con i suoi riff minacciosi, roba da Rolling Stones o da Creedence Clearwater Revival, con la stessa voglia di raccontare la verità e di andare dritti al punto. Subito dopo, la sorpresa: da un vecchio nastro gracchiante a bassa fedeltà si alza la voce della nonna di John, Laura, che come quando era piccolo gli canta una strofa di In The Baggage Coach Ahead, un vecchio e lacrimevole standard country. Simboleggia un passaggio di testimone e un comune sentire; una condivisione intergenerazionale di valori messi in pericolo dalla crisi economica e dalla politica cinica di chi pensa solo al profitto togliendo dignità ai lavoratori.
Viene accennata dolcemente alla chitarra acustica prima che parta Small Town, la canzone perfetta per ricordare al mondo l’universo sterminato e sommerso della provincia, i milioni di persone che sono nate, sono cresciute e vogliono morire nelle piccole città in cui hanno imparato a lavorare, a sognare, a temere Dio e a innamorarsi. Strofa memorabile, impeto travolgente, organo e armonica, quel pezzo ha l’argento vivo addosso. Non può non toccare i nervi dell’America rurale e del Midwest, ma neanche restare un successo solo regionale: infatti diventa una hit nazionale, N° 6 nella classifica di Billboard come Lonely Ol’ Night: altri riff pungenti, di nuovo quella batteria martellante e implacabile, ancora quella voce maschia, rabbiosa e già arrocchita dalle sigarette a raccontare una notte che diventa un incontro fra 2 solitudini.
John ‘Cougar’ Mellencamp
Farà ancora meglio R.O.C.K. In The U.S.A. (N° 2 nella chart Usa), anche se il manager dovrà mettersi d’impegno per convincere Mellencamp a includere in 1 disco serio e meditato come Scarecrow 1 pezzo che lui ritiene troppo leggero e poco in linea con i contenuti che vuole trasmettere. Ha torto, e se ne renderà presto conto: il sottotitolo, A Salute To 60’s Rock, dice tutto e rimanda a quel periodo di prove prima di entrare in studio con un testo che cita per nome Frankie Lymon e Bobby Fuller, Mitch Ryder e Jackie Wilson, le Shangri-Las e gli Young Rascals, Martha Reeves e James Brown, i ragazzi bianchi e neri, di campagna e di città, che alla giovane America hanno insegnato ballare, a liberare il corpo e la mente. Il flauto dolce di Crane evoca la melodia di Wild Thing mentre il ritmo ti fa saltare sulla sedia, è una scarica elettrica e un morbo che ti contagia come il Ballo di San Vito. Rievoca tempi eroici anche Rumblebeat, umore rockabilly, doppia chitarra e appeal radiofonico, mentre You’ve Got To Stand For Something è un invito all’azione e a scendere in strada; una galleria d’immagini, di ricordi e di icone in cui entrano gli Stones e gli Who; Bobby Seale delle Pantere Nere e Marlon Brando; “Rocky” Stallone e Miss America; un viaggio a Roma, il film Paris, Texas e Nikita Kruscev che bacia Fidel Castro, mentre l’inciso ci avverte che chi non si muove per una causa rischia di cadere e di essere travolto.
In Justice And Independence ’85 i tamburi di Aronoff si lanciano in una danza tribale e alle chitarre imbizzarrite risponde un contrappunto di tromba e sassofono, mentre Mellencamp racconta la storia travagliata di una Nazione nata da un padre chiamato Giorno dell’Indipendenza e da una madre di nome Giustizia; quella stessa Nazione che fra i ritmi sincopati, gli accordi in staccato e il giro di basso di The Face Of The Nation fai fatica a riconoscere, mentre spezza i sogni della gente che l’ha creata e la manda in miseria. Anche quando rallenta il ritmo e parla di questioni personali o sentimentali, John canta con una veemenza e un’intensità che non lasciano dubbi sulla sua fede missionaria e sulla sua convinzione: in Minutes To Memories, che racconta di perle di saggezza dispensate da un anziano a un giovane sui sedili di un Greyhound, il suono diventa più roots grazie alle chitarre acustiche e alla fisarmonica del tastierista John Cascella e la voce s’inerpica alzando la tonalità; in Between A Laugh And A Tear duetta con Rickie Lee Jones su un beat più lento e un tappeto di chitarre squillanti come quelle dei Byrds e di Tom Petty; in The Kind Of Fella I Am, all’epoca pubblicata solo su Cd e cassetta per motivi di spazio, si affaccia anche il blues con la slide elettrica di Ry Cooder.
John Mellencamp, Neil Young, Willie Nelson
Alle radio e al pubblico piacerà molto anche la versione countreggiante di Under The Boardwalk pubblicata come lato b di R.O.C.K In The U.S.A, i cori, il banjo e il violino che trasportano il soul latino e newyorkese dei Drifters direttamente nel Midwest; una pugnace Cold Sweat su cui forse persino James Brown avrebbe avuto poco da eccepire e una sanguigna cover di Shama Lama Ding Dong (che la band fittizia Otis Day and the Knights interpretava nel leggendario film Animal House) confermano che Mellencamp se la cava benissimo anche con il soul e l’r&b, musiche di altri dimenticati da Dio in cerca di riscatto. Sono i pezzi forti del “bonus Cd”, che accanto a frammenti di provini e rough mix che Gehman avrebbe poi opportunamente provveduto a irrobustire propone anche 2 discreti ma non irrinunciabili inediti, Carolina Shag che nel titolo richiama un famoso ballo arpeggiando in modalità jingle jangle e il rock reggae di Smart Guys, ironica e affettuosa dedica allo scomparso scrittore e giornalista musicale Timothy White e alla sua pretesa di avere sempre ragione. Ma è soprattutto la versione acustica di Small Town posta in coda al 1° disco a lanciare un segnale, ad anticipare quel che sarà: violino e chitarre acustiche vanno già in direzione di un futuro da folk singer.
Scarecrow sta un passo indietro, ma arriva nel momento giusto: prima ancora che venga distribuito nei negozi (nell’agosto del 1985) e che s’inerpichi fino al N° 2 in classifica, Bob Dylan dal palco del Live Aid lancia un appello in difesa dei piccoli coltivatori americani ispirando John, Willie Nelson e Neil Young a organizzare le raccolte di fondi che ancora oggi proseguono con il Farm Aid. Un sincronismo perfetto, mentre percorso artistico e impegno civile si muovono in sintonia. La musica, intanto, racconta anche un’altra verità: il Mellencamp di metà anni 80 non è solo un uomo in cerca delle sue radici, un Faulkner con la chitarra al posto della penna attento alle sorti della sua collettività. È anche un performer con un’energia travolgente e animalesca, che predica il ritorno a una musica fonte di gioia, conforto e solidarietà. Un irriducibile prigioniero del rock and roll.