Che a Brian Eno sia ritornata la voce è una gran bella notizia. Nel suo nuovo disco, intitolato come uno scioglilingua ForeverAndEverNoMore, l’ex tastierista dei Roxy Music canta che è un piacere starlo ad ascoltare. Era da Another Day On Earth del 2005 che la sua voce non “accessoriava ” l’ambient music di cui rimane indiscusso maestro.

C’era stata, a dire il vero, una fugace illusione di pochi minuti: nelle battute finali dell’album The Ship, 6 anni fa, Eno aveva pensato bene d’intonare a modo suo I’m Set Free dei Velvet Underground immergendola in un mare magnum di suoni eterei. Un vezzo, uno sfizio. Di quelli destinati, però, a non avere un seguito. E invece: «La mia voce è cambiata, si è abbassata, è diventata una personalità diversa da cui ho potuto ricominciare a cantare», ha dichiarato lo “stratega obliquo”, «ma non ho voluto farlo come un adolescente, a costo di rendere le mie interpretazioni malinconiche e un po’ rimpiante».

Brian Eno
© Cecily Eno

Differenze sostanziali ci sono eccome. Se l’Eno in ossequioso make-up verso il glam rock utilizzava la propria voce in maniera affettata e camp (ri-ascoltare per credere Baby’s On Fire dall’ellepì Here Come The Warm Jets, 1973), viceversa quello di album come Another Green World (1975) e Before And After Science (1977) smorzava melodicamente i toni, si rilassava meditabondo e cercava di stabilire un contatto con la sua ambient music. L’Eno di ForeverAndEverNoMore, invece, si dispone ancora al canto melodico ma riverberandolo e reiterandolo come fosse un mantra.

E poi, l’embrione di questo disco va ricercato il 4 agosto 2021, quando all’Acropoli di Atene in occasione dell’Epidaurus Festival l’artista multimediale britannico ha eseguito i brani Garden Of Stars e There Were Bells accompagnato dal fratello Roger, dalla figlia Cecily, dal chitarrista Leo Abrahams e dal multistrumentista nonché software designer Peter Chilvers. Quel giorno il termometro aveva toccato i 45°, gli incendi stavano devastando l’Attica e lui ha introdotto così la sua performance: «Ho pensato: siamo nella culla della civiltà occidentale e con ogni probabilità stiamo assistendo alla sua fine…».

Da qui l’urgenza di affrontare il tema dell’emergenza ambientale e climatica nelle 10 tracce (8 vocali + 2 strumentali) di un disco d’una bellezza apocalittica e insieme ammaliatrice, che a iniziare dal titolo – tradotto in italiano: Per sempre e mai più – non vuole essere un album di protesta bensì «l’esplorazione dei miei sentimenti. Augurandomi che siano un invito, per tutti coloro che lo vorranno ascoltare, a innamorarci di nuovo: ma stavolta della natura, della civiltà, delle nostre speranze per il futuro». Eccoli, dunque, i nuovi “mondi sonori” di Brian Eno. Via libera al crooning crepuscolare di Who Gives A Thought, alla maniera di Scott Walker, sopra un tappeto sonoro di pizzicati e di un noise appena percettibile; alla musica ambientale di We Let It In che si fa respiro, al suo incedere armonico che si fa borborigmo e al canto eniano che è un mantra contrappuntato dagli acuti e dalle scansioni vocali della figlia Darla; al landscape sonoro di Icarus Or Blériot, capace di tramutarsi in una sorta di folk elettronico.

Peter Chilvers, Brian Eno, Leo Abrahams, Cecily Eno e Roger Eno, Acropoli di Atene, 4 agosto 2021
© Thomas Daskalakis

Via libera alle “ateniesi Garden Of Stars e There Were Bells: la prima ad avvolgere con suoni plumbei, gravi e ripetitivi le rifrazioni vocali di Eno e di Cecily; la seconda, ad affidarsi con cinguettii e riverberi elettronici alle sublimi, cristalline intonazioni di Brian che sgranano come un rosario l’assoluto melodico. Sherry, dal canto suo, si focalizza sugli arpeggi e sulle carezze delle tastiere e della chitarra allo scopo di sublimare un canto che si fa memoria, mentre I’m Hardly Me gioca le proprie carte sulla voce di Darla, “customizzata” dall’elettronica, che ritaglia spazi alle profonde intonazioni di Eno. Il quale, assecondando in These Small Noises la melodia solenne di un pianoforte, lega indissolubilmente la propria voce a quella della irlandese Clodagh Simonds.

Infine, le 2 composizioni strumentali: Inclusion, sapientemente affidata al violino e alla viola di Marina Moore; Making Gardens Out Of Silence In The Uncanny Valley, severa e salmodiante ambient music utilizzata in origine per un’installazione audio di Back To Earth, il programma interdisciplinare a lungo termine delle Serpentine Galleries di Londra. Tema, ancora e più che mai, la crisi climatica. Pericolosamente in divenire.