La randagia e fulminea vita di Jean-Michel Basquiat (1960-1988), che non voleva essere un artista nero ma un artista famoso, è marchiata a fuoco in queste parole: «Non so come descrivere il mio lavoro, perché non è mai la stessa cosa. È come chiedere a Miles Davis: “Beh, com’è il suono della tua tromba?”». Al maledetto genio Basquiat, nato a Brooklyn il 22 dicembre 1960 da madre portoricana e padre haitiano; morto il 12 agosto 1988 nel suo loft in Great Jones Street, a Manhattan, tradito dalla fedele eroina, è dedicata la prima biografia completa Basquiat: Vita lucente e breve di un genio dell’arte, redatta in 7 anni dalla giornalista americana Phoebe Hoban. La quale, per ricostruire nei minimi dettagli la straniante esistenza del graffitista, ha intervistato più di 200 persone, inclusi i familiari. «Basquiat non era uno normale – scrive la Hoban nella prefazione – Viveva sullo stile paga e prendi. Ma in alcune cose era imbattibile, in centinaia di cose. Nei disegni, nei dipinti e nelle note che lo raccontavano come un test Rorschach. Basquiat viveva i suoi dipinti: ci dormiva,  camminava, mangiava sopra». Jean-Michel è morto da tossico. Come Charlie Parker, il suo eroe jazzista. Prima o poi, anche lui si sarebbe comprato un sassofono. Nell’82 della sua prima personale, Annina Nosei lo fa lavorare nello scantinato della sua galleria d’arte newyorkese. Più quadri possibili, da catena di montaggio, in cambio dell’imperitura gloria. E lui, l’ex SAMO © (contrazione di Same Old Shit, la stessa vecchia merda) che aveva inondato di tags i muri di Brooklyn, si inginocchia sulle enormi tele e le riempie di spasmi colorati fra primitivismo afro e Art Brut, scribacchiandovi sopra numeri telefonici, slogans, marchi della pubblicità, epitaffi, parole barrate. Senza stancarsi mai, quasi in trance, mentre il suo ghetto-blaster sputa fuori il jazz che lo fa star bene: Charlie Parker anzitutto, e poi Miles Davis, Dizzy Gillespie, Max Roach, Billie Holiday. Eroi che, scarnificati e con le ghignanti facce ridotte a teschi, compariranno in opere come Plastic Sax e Jazz. Famose quasi quanto la deturpata, caustica Mona Lisa dell’83 sovraimpressa con spregio alla banconota da 1 dollaro.

Figlio della piccola borghesia, nel ’68 Basquiat viene investito da un’auto mentre gioca a pallone. Gli asportano la milza. Durante la convalescenza riceve in dono dalla madre il volume Gray’s Anatomy, adottato dagli studenti di medicina. Gli cambierà la vita, influenzando non poco la crudezza anatomica delle sue opere. Alla fine degli Anni ’70 balla sull’orlo dell’abisso della Big Apple delle “celebrities”, che si ritrovano al Mudd Club e allo Studio 54 ascoltando i B-52’s, la New Wave rampante e Madonna (sua relazione-lampo, che nel ’96 lo ha ricordato così: «Aveva le tasche dei suoi completi Armani macchiate di vernice e piene di dollari stropicciati. Possedere soldi lo faceva sentire in colpa»). Entra nel giro, si firma Basquiat dall’alto dei suoi “dreadlocks” dopo aver proclamato sui muri di Soho “SAMO © is dead” (SAMO è morto); conosce i graffitisti Keith Haring e Kenny Scharf, incontra Andy Warhol con cui nell’85 realizzerà 16 affreschi per la mostra Warhol/Basquiat. Nell’83, senza rendersene conto, è un artista di 23 anni all’apice della fama, addentato da squali-galleristi come Gagosian e Bischofberger. Jean-Michel dalle uova d’oro. Che poco prima di andarsene, sibila: «È qui che voglio morire. Voglio che tutti questi palazzi mi crollino addosso in questo punto esatto. Amico, io odio New York. Ti leva l’energia».

Phoebe Hoban, Basquiat: Vita lucente e breve di un genio dell’arte, Castelvecchi Editore, 468 pagine, € 25

Foto: William Coupon/Castelvecchi Editore
Jean-Michel Basquiat nell’atelier di Great Jones Street, New York, 1985
(AP Photo/Brooklyn Museum, Lizzy Himmel, File)