Il 14 maggio 1969, giorno del suo 26° compleanno, Jack Bruce trovò una lettera nella cassetta della posta. Era firmata da Jeannie Franklyn alias Genie the Tailor, costumista e sarta americana delle pop star che fra i suoi clienti aveva avuto anche lui e gli altri Cream e che in quelle righe, nel salutarlo, gli chiedeva come al solito di “cantare qualcuna delle tue note acute per me ”. Per un crudele gioco del destino, Jeannie in quel momento era già morta: meno di 48 ore prima, il furgoncino su cui viaggiava insieme all’allora compagno Richard Thompson e ai Fairport Convention, di ritorno da un concerto a Birmingham era uscito di strada, si era ribaltato su un terrapieno e aveva concluso la sua tragica corsa facendo 2 vittime: lei, 26 anni, e il batterista 19enne Martin Lamble. Bruce, affranto, trovò così il titolo definitivo dell’album solista che stava completando in quei giorni ai Morgan Studios di Londra; lo dedicò alla sua memoria chiamandolo semplicemente Songs For A Tailor, “canzoni per una sarta ”.
Ristampato in questi giorni dalla Esoteric su vinile rimasterizzato dai nastri originali e su cofanetto deluxe con 2 Cd e 2 Blu-ray contenenti demo, alternate takes e outtakes, nuovi missaggi stereo e 5.1 Surround, il film documentario del 1970 Rope Ladder To The Moon e un bel libretto illustrato annotato dal giornalista Sid Smith, resta il disco solista migliore del cantante e bassista, che mentre Eric Clapton e Ginger Baker si facevano tentare dalla meravigliosa ma effimera grandeur dei Blind Faith insieme a Steve Winwood e a Ric Grech, se ne andava cocciutamente e anche un po’ sventatamente nella direzione opposta: quella di una musica non catalogabile e senza confini, scritta ma anche improvvisata, in cui un rock anomalo, bizzoso e umorale si mescolava al nuovo jazz elettrico, a un blues totalmente reinventato e a un recupero delle tradizioni folkloriche della sua Scozia.
Bruce, in quel momento, aveva in testa un’idea fissa: sfogare le sue ambizioni di autore e musicista allontanandosi il più possibile dall’hard blues del supergruppo che poco prima gli aveva dato fama planetaria a dispetto di chi, come il grande boss dell’Atlantic, Ahmet Ertegün – licenziatario negli Stati Uniti dei suoi dischi con il marchio Atco – gli suggeriva invece di formare subito un altro power trio (lo farà un paio d’anni dopo insieme a Leslie West e a Corky Laing, ma non sarà la stessa cosa). «Data la mia natura», raccontò in seguito, «decisi ovviamente di fare l’esatto opposto. Parte della frustrazione che avevo provato con i Cream derivava dal fatto che si trattava di una band molto limitata dal punto di vista della strumentazione, dal vivo e in misura minore anche in studio». Pete Brown, poeta beat della Swinging London e visionario paroliere che con lui aveva composto gran parte dei classici della band, restava l’unico collegamento con quel passato recente assieme al newyorkese Felix Pappalardi, bassista e cantante come lui, di lì a poco cofondatore dei Mountain e l’anno prima produttore per il trio britannico del singolo Badge, che nei crediti indicava come coautore e chitarrista ritmico L’Angelo Misterioso.
Nientemeno che George Harrison, che sotto quelle mentite spoglie (e sempre per motivi contrattuali) presterà la sua chitarra anche all’esuberante brano d’apertura di Songs For A Tailor ironicamente intitolato Never Tell Your Mother She’s Out Of Tune, 3 minuti e 41 secondi che mettono subito le cose in chiaro e mandano all’aria le aspettative dei fan e della casa discografica: i Cream sono a distanza siderale, Jack mette a frutto gli studi giovanili di composizione presso la Royal Scottish Academy of Music and Drama e azzarda uno scoppiettante, complicato arrangiamento per 4 strumenti a fiato degno di Gil Evans; nel mentre suona il pianoforte (altro vecchio amore) e un basso elettrico che rimbalza fra i solchi come una molla. Partecipano alla session vecchi amici e colleghi quali Jon Hiseman (batteria) e Dick Heckstall-Smith (sax tenore e soprano) dei Colosseum, con cui l’anno precedente ha già inciso un album strumentale e d’ispirazione be bop, Things We Like, che tiene momentaneamente nel cassetto per proporre al pubblico un disco di canzoni che, come si affretta a sottolineare l’amico Pete, in quel momento non assomigliano a quelle di nessun altro.
La più famosa e giustamente celebrata, che diventerà un cavallo di battaglia tanto dei Mountain quanto dei Colosseum, arriva subito dopo come 2° brano del lato A dell’Lp: s’intitola Theme From An Imaginary Western, Clapton non l’ha voluta incidere con i Cream ritenendola una copia dello stile della Band (anche se Jack ribatte che la composizione è datata addirittura 1962) e quella sua malinconica sequenza di accordi discendenti spinge Brown a scrivere un testo meno enigmatico del solito, autobiografico e nostalgico ricordo dei tempi in cui i giovani leoni del jazz e dell’r&b revival come loro, suggestionati dai film hollywoodiani, si vedevano come pionieri o cowboy di frontiera del vecchio West in viaggio su strade polverose fra continui imprevisti, avventure romantiche e dure prove da affrontare. Quell’immaginario tema da film diventa una ballata epica ed elegiaca con qualche profumo di Procol Harum, il bandleader sfodera una performance vocale appassionata e memorabile sovraincidendo basso, piano e organo mentre alla chitarra c’è un altro grande protagonista del disco, Chris Spedding: futuro componente dei Nucleus, attuale membro dei Battered Ornaments di Brown e strumentista di grande valore, scelto appositamente per il suo stile meno appariscente di quello di Clapton. Perché Bruce è un virtuoso, un precursore e un rivoluzionario che ha saputo trasformare il suo basso in uno strumento leader nel dettare ritmi e melodie ma per cui controllo e disciplina restano 2 comandamenti essenziali del fare musica («È molto importante suonare ciò che richiede la canzone, non il maggior numero di note possibili», spiega).
Jack Bruce
(1943-2014)
Ripreso anch’essa dai Colosseum, Rope Ladder To The Moon è l’altro pezzo celebre che tallona da vicino il capolavoro del disco: un jazz pop elegante e intellettuale come quelli di Robert Wyatt, una corda attorcigliata che si srotola in direzione della Luna e su cui Jack si arrampica imbracciando anche una chitarra acustica e il violoncello che ha studiato da ragazzo accompagnato dalla voce dell’alter ego Pappalardi mentre alla batteria siede stavolta John Marshall, altro futuro Nucleus e maestro del backbeat alla Ringo Starr molto apprezzato da Jack per il suo stile compassato. Basterebbero quei 2 titoli a spiegare la varietà quasi frastornante e l’imprevedibilità fuori dai canoni di Songs For A Tailor, un album in cui Jack si ricorda del suo ricchissimo pedigree (studi classici, amore per il jazz, militanza negli Alexis Korner’s Blues Incorporated, nella Graham Bond Organisation e nei Bluesbreakers di John Mayall) rievocando vagamente i Cream e il loro progressive blues forse solo nella trascinante The Ministry Of Bag, peraltro ancora arricchita da una partitura per ottoni.
Viaggiano su binari lontani, quasi in un altro mondo, il rock sghembo e a saliscendi di Tickets To Water Falls, i cambi di velocità dell’anomala ballata Weird Of Hermiston che s’ispira alle saghe scozzesi e al titolo dell’ultimo romanzo mai completato di Robert Louis Stevenson, il folk-rock svagato di He The Richmond (l’altro brano con Marshall alla batteria) e l’invettiva contro i redneck reazionari americani di Boston Ball Game 1967 (titolo originale Plastic Eye), collage sperimentale che porta alle estreme conseguenze la formula delle 2 linee vocali contrapposte di I Feel Free e Sunshine Of Your Love mentre alle trombe di Harry Beckett e di Henry Lowther e ai sax soprano e tenori di Heckstall-Smith e di Art Themen si aggiunge il trombone di John Mumford. Ancora più radicale e fuori norma è To Isengard, inizialmente intitolata And So Our Time, che si apre con un delicato intreccio di 2 chitarre acustiche ispirato al motivo conduttore della colonna sonora composta nel 1958 dall’italiano Mario Nascimbene per The Vikings (I vichinghi), film di Richard Fleischer, per poi sfociare in un convulso free jazz in ¾, con la chitarra stridente e atonale di Spedding a dialogare con un basso elettrico lanciato nel futuro e che sembra anticipare Jaco Pastorius.
«Porcheria psichedelica», aveva sibilato Ertegün ascoltandone il provino e bocciandone l’inclusione (insieme a The Weird Of Hermiston) nell’album dei Cream Disraeli Gears: di sicuro musica poco ortodossa e che deviava dalla via maestra come The Clearout, la marcetta borbottante introdotta dal ritmo marziale della batteria di Hiseman che chiude un disco nonostante tutto premiato dal pubblico (N°6 in Inghilterra e N°55 negli Stati Uniti) e incensato da gran parte della critica (“Trascendentale ”, scrisse allora la rivista inglese Record Mirror) anche se, quando uscì nei negozi nell’agosto 1969, indicò senza indugi che Bruce era deciso a lasciare il viale del successo per inoltrarsi in sentieri più tortuosi e meno trafficati, sicuramente più appaganti dal punto di vista artistico che commerciale. Mentre i Blind Faith si esibivano nelle arene spegnendo in pochi mesi il loro entusiasmo iniziale, il tignoso scozzese salutava il rock stardom per non voltarsi mai più indietro (salvo una fugace reunion dei Cream nel 2005) e continuare a vivere quel suo avventuroso western immaginario. Fino a quando, nel 2014, anni di dipendenza dall’alcol e dall’eroina presenteranno il conto e un tumore al fegato ne interromperà la fantastica cavalcata.