Azzardiamo: Pink Moon è il disco più fragile di Nick Drake. Non può vantare la freschezza di Five Leaves Left, né la brillantezza policroma dell’inarrivabile Bryter Layter. Ha piuttosto la natura incompiuta di una raccolta di demo, di provini. Eppure è soprattutto per quell’album (e la canzone che gli dà il titolo) che l’elusivo e straordinario cantautore di Tamworth-in-Arden viene oggi ricordato e celebrato. Nel 1999 accadde l’inimmaginabile: quella voce e quella musica eterea entrarono nelle case di milioni di persone grazie a uno spot televisivo della Volkswagen. Strano destino davvero, per Nick. Lui così schivo («la persona più solitaria di questo mondo», lo descrivevano amici e colleghi), immune da ogni tentazione mercantile, enigmatico in vita e in punto di morte (la notte fra il 24 e il 25 novembre 1974, per ingestione eccessiva di antidepressivi: ancora oggi non è chiaro se si sia trattato di incidente o suicidio). La semplicità inebriante di Pink Moon, la sua natura monca e imperfetta, hanno compiuto un piccolo miracolo. Breve come un lampo (28 minuti ½ di musica), a tratti abbozzato (lo strumentale minimalista Horn; il giro blues ossessivo ed elementare di Know), nudo e spoglio, è un disco che calza al suo autore come un guanto. È crudo e sincero, intimo e poetico. Non stupisce, dunque, che dopo quella morte romantica e misteriosa sia stato studiato, analizzato, interpretato come un epitaffio. Che abbia acceso l’immaginazione di centinaia di musicisti abituati a fissarsi l’ombelico o la punta delle scarpe in camera da letto, generando innumerevoli omaggi e tentativi d’imitazione.

Rispetto ai suoi tanti epigoni, però, Nick era di un’altra pasta. Capace con la sua grazia inimitabile di “camminare sull’aria solida“, come cantò l’amico e collega John Martyn nella sua canzone forse più bella, Solid Air. Interprete di una musica acustica (voce e chitarra, con qualche accenno di pianoforte nella title track) vicina agli umori del tempo ma troppo personale per essere etichettata come folk. Dotato d’inimitabili qualità, che nella cornice rustica e nell’ambiente spoglio di questo disco rifulgono e catturano l’attenzione. Una voce scura, la sua. Arrochita da 1.000 sigarette (il produttore Joe Boyd ricorda il suo impermeabile nero perennemente sporco di cenere) che faceva immaginare un’età, una maturità e un’esperienza di vita molto superiori alla realtà. Una stupefacente – spesso sottovalutata – abilità nel fingerpicking chitarristico, nella ricerca di accordature originali e nella costruzione di note “a grappolo” (i cosiddetti cluster) affinata in ore e ore di pratica ossessiva (ascoltate Road, l’esotica Free Ride, le serpentine di Parasite). Ma soprattutto un talento soprannaturale nel far sgorgare dall’intimo ballate melodiose, nebbiose, malinconiche, autunnali, che lasciano a bocca aperta e spezzano il cuore: Pink Moon (meravigliosa), Place To Be, Things Behind The Sun sanno di brume, di muschio, di foglie morte, di crepuscoli sulla brughiera, di albe insonni nella periferia di quelle Northern Towns inglesi simili una all’altra. Mentre da From The Morning proviene la mistica epigrafe iscritta sulla lapide di Drake a Tamworth: “Ora risorgiamo/e siamo ovunque“. Alimentando il culto di una persona o di un artista, si rischia di costruirne un’identità distorta, lontana dal vero.

Ma Pink Moon è un album difficile da fraintendere; e aderisce perfettamente ai ricordi di chi Nick lo conosceva bene. Ha quella qualità virginale e ultraterrena che i suoi stretti collaboratori hanno sempre colto nella sua persona, nella sua musica, nei suoi testi. All’epoca della sua uscita, Drake si rifiutò di promuoverlo facendo dannare Chris Blackwell e i discografici della Island che avevano capito di avere un piccolo diamante fra le mani. Per fortuna il tempo, le menti sensibili e le tante orecchie pronte a prestare ascolto gli hanno reso giustizia.

Nick Drake, Pink Moon (1972, Island)