Nell’autunno del 1981 Joe Jackson ha 27 anni, è convinto che il rock sia morto e che Londra sia una città grigia e inospitale. Ha provato a dare un senso a una musica che gli sembra agonizzante innestando robuste dosi di dub giamaicano in Beat Crazy (un mezzo flop commerciale); si è divertito con lo swing revival in giacca e cravatta di Jumpin’ Jive, ma ora è a un bivio: gli anni esaltanti del debutto discografico e del rock reggae scattante di Look Sharp! e I’m The Man gli sembrano già lontanissimi. Le prime impressioni sugli Stati Uniti non sono proprio incoraggianti («La mia sensazione è che il rock fan medio americano sia mentalmente ritardato») ma il quartiere bohémienne e anche pericoloso dell’East Village newyorkese è il luogo in cui decide di appendere il cappello. È una rivelazione, un’epifanìa. Le notti trascorse nei club ad ascoltare jazz e la salsa di Ray Barreto ed Eddie Palmieri; le discoteche in cui si incrocia una fauna umana pittoresca e dalla sessualità indefinibile, gli aprono la testa e le frontiere dell’ispirazione musicale. Decide che il prossimo album, Night And Day, non sarà un disco su New York ma sicuramente ispirato da New York.

Bandite le chitarre, lo spazio sonoro viene occupato soprattutto dalle tastiere (organo e piano elettrico, sintetizzatore Prophet e Minimoog) e dalla sezione ritmica: della vecchia band resta solo l’imprescindibile Graham Maby con il suo basso fluido e guizzante, il batterista Larry Tolfree ha già partecipato alle sedute di incisione e al tour di Jumpin’ Jive mentre la nuova arrivata, Sue Hadjopoulos, è una forza della natura che ha studiato flauto classico, si è laureata con lode in antropologia alla Columbia University ed è diventata un asso delle congas, dei bongos e dei timbales suonando per un paio d’anni nei Latin Fever, una band salsa di 14 ragazze prodotta dal pianista latin jazz Larry Harlow. Quando l’Lp arriverà sugli scaffali nel giugno del 1982, la copertina lancerà un chiaro messaggio: con pochi tratti essenziali Jackson è disegnato come un novello Cole Porter (il titolo del disco è un omaggio a uno dei suoi standard più famosi) davanti agli spartiti e a un pianoforte a coda, con lo sfondo notturno dell’Empire, del Chrysler e degli altri grattacieli illuminati della Grande Mela. Nella parte interna della busta apribile, una foto ritrae i 4 musicisti in 1 stipatissimo studio, circondati dai loro strumenti (compresi due xylofoni e un sax alto suonato da Joe) e da amplificatori Fender: su 1 di essi poggia una copia del Super Hits di Marvin Gaye. Di fianco, dopo i testi delle canzoni, è riportata una frase di Duke Ellington che, malgrado tutto, si dichiara ottimista sul futuro della musica.

Sono i tempi del vinile, e Joe decide di dividere l’opera in 2 parti: ma siccome siamo nella città che non dorme mai, capita che la Night Side sia carica di ritmo, elettricità, colore ed eccitazione; e che la Day Side sia quieta, riflessiva, acustica e in bianco e nero. Umori afrocubani e portoricani, sentori di cool jazz e richiami al grande songbook americano spalancano letteralmente a Jackson un altro mondo: l’apertura di Another World trasmette il fervore della scoperta, l’esultanza del passaggio dal buio alla luce, da un ambiente tetro e scoraggiante a una terra accogliente e di grandi opportunità. In Night And Day Jackson si scopre disposto a perdersi nei vicoli di Chinatown schivando sguardi minacciosi e criminali da strada, consapevole di poter essere un Target, un bersaglio: “Qualcuno potrebbe sorridermi/Stringermi la mano e poi spararmi” (il ricordo dell’omicidio di John Lennon davanti al Dakota Building è ancora vivissimo), ma non c’è scelta: “Si tratta di nuotare o di affogare“. Così il lato notturno del disco è una girandola di latin pop jazzato, inebriante e dai sapori esotici che invita a ribellarsi alla schiavitù televisiva (la schizzata T.V. Age ha qualcosa dei Talking Heads dell’epoca) e a saltare sul 1° taxi per farsi cullare dalle 1.000 luci di Manhattan. È Steppin’ Out che pulsa al ritmo di una rudimentale drum machine (Jackson la riutilizzerà in concerto durante il tour celebrativo dei 40 anni di carriera, riproponendo una versione filologica del suo classico): è una delle prime canzoni scritte per il disco e l’idea di utilizzare in sala di incisione i timbri scintillanti di diverse tastiere, spiegherà l’autore, è dovuta al tentativo di «evocare il bagliore delle luci al neon e la sensazione di muoversi in taxi da club a club. Steppin’ Out è una ballata romantica impostata su un ritmo disco». Sarà il più grande successo in carriera, Top Ten nel Regno Unito e negli Stati Uniti con 2 nomination ai Grammy; e catapulterà l’album al numero 5 in entrambi i mercati con più di 1.000.000 di copie vendute.

L’influenza di Cole Porter, il suo elegante tocco ironico e la sua capacità di far convivere canzonetta e musicaseria” emerge però soprattutto nell’altro lato, quello diurno e più tranquillo del disco, in cui lo “spilungone” di Burton upon Trent mette a frutto gli anni giovanili trascorsi a suonare nei pub e a studiare composizione musicale alla Royal Academy of Music in una sequenza di ballate incentrate sulla sua voce e sul suo pianoforte: Breaking Us In Two (pubblicata anche come singolo) esalta il suo raffinato classicismo pop, mentre il sinuoso andamento latino di Cancer e il Phil Spector in miniatura di Real Men (con il violino di Ed Roynesdal, poi elemento chiave della tour band) ricordano anche il suo acume di paroliere: filosofico e sardonico nell’osservare come tutti i piaceri della vita a cui non intende rinunciare – caffeina, alcol, nicotina – siano dannosi per la salute;  pungente nel riflettere sulle distinzioni sempre più sfumate tra i sessi nella società contemporanea (e soprattutto in metropoli come New York, dove la cultura gay in quegli anni assume sempre più rilevanza). Incorniciata dalla sua performance vocale più intensa di sempre e da un caldo, avvolgente assolo di Hammond, A Slow Song è il grido di protesta rivolto a chi non sa domare la musica e le permette di trasformarsi in una bestia selvaggia, la supplica di un uomo che la sera desidera solo rilassarsi e ballare un lento senza sottostare alla dittatura dei suoni pompati e fragorosi prediletti dai dj alla moda: chiusura perfetta di tanti concerti e di un disco che fotografa nitidamente una New York che non c’è più, non ancora ripulita dal sindaco Giuliani e dalla onnipresenza omologante delle grandi insegne commerciali; una città violenta ma vibrante, sudicia e multiculturale (non a caso poco dopo l’album Joe Jackson pubblica un Real Men EP aggiungendo alla title track 3 pezzi del disco cantati in spagnolo).

Ad ascoltarlo oggi non se ne coglie forse interamente la freschezza sonora e la portata quietamente rivoluzionaria di allora: ma nel 1982, con Night And Day, Jackson lanciava una provvidenziale scialuppa di salvataggio a chi, come lui, si sentiva «brutalizzato dai bassi e terrorizzato dagli alti», annaspante in un mare di synth pop e di pretty boys sbeffeggiati in una vecchia canzone ma ormai padroni assoluti degli schermi televisivi e della “musica da vedere” di MTV. In tanti gliene siamo grati ancora oggi.

Joe Jackson, Night And Day (1982, A&M Records)