A volte anche i discografici più geniali e più scafati prendono delle clamorose cantonate. Accadde al boss della Motown, Berry Gordy Jr., che al 1° ascolto bollò What’s Going On di Marvin Gaye come un “suicidio commerciale“. E accadde anche al leggendario Ahmet Ertegun, l’uomo che mise sotto contratto i Led Zeppelin e Crosby, Stills, Nash & Young dopo avere già fatto della Atlantic Records la Mecca del r&b, del soul e del jazz afroamericano.
«Cos’è questa fesseria psichedelica?», pare abbia pronunciato ascoltando per la prima volta, nell’aprile del 1967, Sunshine Of Your Love dei Cream che dopo un debutto non troppo promettente nelle classifiche dei singoli americani (N° 36), al 2° tentativo, poco più di 1 anno dopo, avrebbe portato trionfalmente il super trio formato da Eric Clapton, Jack Bruce e Ginger Baker nella Top 5 di Billboard lanciandone definitivamente la carriera negli Usa, aprendo una strada maestra all’heavy rock e conquistandosi un posto tra i riff più iconici e imitati della storia del rock. Basato su una doppia, ruvida frase di chitarra elettrica e di basso che Bruce aveva preso a prestito da Jimi Hendrix (il mancino di Seattle avrebbe restituito il favore interpretando Sunshine dal vivo in concerto) mentre le voci dei 2 – anche autori del brano insieme al paroliere Pete Brown – si alternano nelle strofe e si uniscono nel ritornello, Eric accenna nell’assolo allo standard Blue Moon e Baker sfodera un drumming tribale che evoca le percussioni rituali dei nativi americani.
Jack Bruce, Ginger Baker, Eric Clapton
Una magia dell’ultima ora, nata dalla disperazione di Bruce e Brown dopo una notte di lavoro infruttuoso quando Jack si mette a improvvisare sul suo vecchio contrabbasso e Pete vede sorgere il sole trovando l’ispirazione per l’incipit del testo. Abituato a Ray Charles, ad Aretha Franklin e a Wilson Pickett, Ertegun non aveva ancora le orecchie allenate per apprezzare il progetto rivoluzionario dei 3: usare il blues elettrico di Chicago come piattaforma di lancio verso spazi inesplorati, amplificando al massimo gli strumenti, pigiando a fondo sui distorsori e avventurandosi in composizioni originali inebriate dall’aria del tempo. Dall’acid rock, dalla Swinging London e dal Sgt. Pepper beatlesiano (Clapton, il più purista dei 3 che aveva abbandonato gli Yardbirds proprio quando il gruppo aveva deciso di spingersi oltre le 12 battute, fu sempre il più restìo a uscire troppo dai canoni).
Il grande fonico di casa Atlantic, Tom Dowd, era la persona giusta per tirare fuori i suoni fiammeggianti che i 3 avevano in testa; ma alla console, al posto del gran capo turco-americano ci voleva un visionario in linea con il mood del momento. Ed ecco entrare in scena Felix Pappalardi: autore, arrangiatore, produttore e musicista di 27 anni ma già un veterano, che in seguito avrebbe cofondato i Mountain e fatto una brutta fine, ucciso nel 1983 da un colpo di pistola alla nuca sparato dalla moglie. Con lui e un nuovo testo più adatto ai tempi, Lawdy Mama, un blues tradizionale degli anni 30 arrangiato da Eric che i Cream avevano ripreso dal repertorio di Junior Wells proprio su richiesta di Ertegun, diventa una strana miscela, una Strange Brew in cui si sovrappongono 2 chitarre elettriche, il volume si alza e il ritmo diventa più marcato, quasi funk.
Sarà il pezzo iniziale e l’altro singolo di un disco inciso a New York in appena 5 giorni, tra l’11 e il 15 maggio 1967, porta d’ingresso a un mondo psichedelico dai colori accecanti come la famosa copertina che Martin Sharp disegnò per Disraeli Gears (il titolo è un nonsense nato da una gaffe linguistica di un roadie che aveva confuso il nome della parte meccanica di una bicicletta con quello del politico inglese Primo Ministro del Governo Britannico nella seconda metà dell’800). Il blues più canonico ma sempre iper amplificato non è abbandonato del tutto, soprattutto nella seconda facciata in cui Clapton reinterpreta la Outside Woman Blues di Blind Willie Reynolds e Bruce, voce solista e armonica, porta dalle parti del Southside chicagoano la sua Take It Back.
Ma il cuore del disco sta altrove, oltre che in Strange Brew e in Sunshine Of Your Love. Galleggia tra le onde di wah wah e i riff (progenitori di White Room) di Tales Of Brave Ulysses, rivisitazione onirica e psych dell’Odissea omerica che Clapton firma proprio con Sharp; e nelle volute vertiginose della hendrixiana SWLABR, dove i 3 rendono figurativamente alla perfezione un testo pop, lisergico e surrealista di Brown, poeta beat fondamentale nell’evoluzione della musica dei Cream, che immagina arcobaleni barbuti e quadri baffuti: roba da sconcertare i puristi (e da far girare la testa a Ertegun).
La fragilissima democrazia del gruppo resta miracolosamente in equilibrio in virtù di una tregua temporanea tra Bruce e Baker, 2 fratelli coltelli protagonisti di innumerevoli zuffe all’arma bianca sin dai tempi della Alexis Korner’s Blues Incorporated e della Graham Bond Organisation, ma anche 2 musicisti formidabili: Ginger, il rosso tossico e attaccabrighe capace di portare nella batteria rock la doppia cassa, un sound fragoroso con cui cerca di non soccombere ai compagni, i sottili fraseggi di Art Blakey, Max Roach ed Elvin Jones e i ritmi africani; Jack, focoso e tostissimo scozzese, di usare il basso come controcanto, come voce solista e melodica, come rimbombante e saltellante puntello del power trio.
2 grandi strumentisti che accompagnano la solista di Clapton, già incoronato come dio sui muri di Londra ai tempi della militanza nei Bluesbreakers di John Mayall, verso un’estetica jazz e sulle sponde eccitanti dell’improvvisazione, nel mentre la sua Gibson assume nuove colorazioni timbriche e un’identità volutamente più “femminile” (alzando i volumi e abbassando il treble, le alte frequenze). Un mix inaudito, fino ad allora, una rivoluzione che procede di pari passo con quella di Hendrix e che si manifesta soprattutto nei travolgenti e rumorosi spettacoli dal vivo.
In studio, come già aveva mostrato il precedente e più timido Fresh Cream, tutto è più conciso, disciplinato, imbrigliato nei minutaggi e nelle strutture del “pop” (un pop comunque originale, coraggioso e a tratti avveniristico). Eric, più morbido, e Jack, più impetuoso e potente, si spartiscono le parti vocali soliste, anche nell’ambito della stessa canzone, tra i falsetti e le tonalità sfumate di World Of Pain, scritta da Pappalardi proprio con la moglie Gail Collins; e di Dance The Night Away, con i suoi arpeggi dolcemente acidi memori della San Francisco con i fiori tra i capelli. Bruce giganteggia nella malinconica We’re Going Wrong, una ballata in sospeso trasformata da un inusuale tempo in 6/8 e dall’uso dei timpani di Baker, autore e interprete con la sua vocetta svagata e incerta di una Blue Condition che fa venire in mente certi dimessi ma irresistibili quadretti bluesati che Keith Richards era solito includere nei dischi dei Rolling Stones (più regolare la prima versione, poi scartata, cantata da Clapton).
È poi un altro traditional, stavolta appartenente alla tradizione del music hall, a chiudere l’album in modo inatteso e quasi parodistico: non nuovi a umoristiche rivisitazioni del genere, i 3 canticchiano con marcato accento cockney una spensierata melodia accompagnati da un pianoforte sgangherato. E’ un attimo di respiro dopo tutta quella intensità, e un segnale che i 3 non si prendono sempre e solo terribilmente sul serio. Che hanno voglia di divertirsi e che non rinunciano al loro britannico senso dello humour, anche se Mother’s Lament non passerà certo alla storia come il resto di Disraeli Gears: il disco che fotografa l’allineamento tra il pianeta del British Blues Revival e quello della psichedelìa anticipando l’hard rock, destinato a durare il tempo di un arcobaleno (barbuto) e di una carriera meteorica che dopo altri pugni e schiaffi – metaforici e non – tra Bruce e Baker si chiuderà il 26 novembre 1968 con un concerto d’addio alla Royal Albert Hall di Londra seguito poco dopo da 1 album postumo (la reunion dal vivo del 2005 è solo una bella appendice).
Nel doppio Wheels Of Fire e in Goodbye ci saranno, oltre a pezzi dal vivo, altri nuovi grandi classici (White Room, Politician, Badge) ma nessun altro disco avrà la coesione, la visione e la forte progettualità di Disraeli Gears, che all’astuto e abile manager australiano Robert Stigwodd consegna un altro asso della manica dopo i Bee Gees. Preso nota delle reazioni del pubblico e dei risultati in classifica, anche Ertegun avrà modo di fare mea culpa e di ricredersi in fretta sulle “fesserie psichedeliche” dei Cream.
Cream, Disraeli Gears (1967, Reaction)