È in casi come questo che salta fuori il gap evidente fra la Pop Art tricolore e la Pop Art a stelle e strisce. Se negli anni 60, in America, vanno in scena l’ostensione della zuppa in barattolo (Andy Warhol), il gigantismo del cibo/scultura (Claes Oldenburg), la bulimìa da consumismo pubblicitario (James Rosenquist) e la striscia a fumetti camuffata ad arte (Roy Lichtenstein), in Italia dipingere “pop” vuol dire sprizzare colori accesi in superficie; ma appena sotto la scorza, ecco sedimentarsi storia, cultura, metafisica, surrealismo, fascinazione per il cinema, psicanalisi… È proprio il caso (incoraggiato e ispirato dalla Pop inglese) di Emilio Tadini (1927-2000) che dalla metà degli anni 60 agli inizi dei 70 sviluppa dal gallerista Giorgio Marconi, nella natìa Milano, i suoi grandi cicli pittorici. «L’incontro con Marconi è stato importante: mi ha dato una grande fiducia di poter professionalmente fare questo lavoro di pittore», ebbe modo di raccontare. «E subito dopo, lavorando, viene fuori la prima grande serie che è quella della Vita di Voltaire, dove si vede l’influenza della Metafisica, si alleggerisce la materia pittorica, uso fondi chiari monocromi e comincia un po’ la storia della mia pittura».
1967-1972. Da un anno all’altro, con la Pop Art a fare da punto di partenza, quelle opere nate «in qualche zona semibuia della coscienza» ritrovano spazio in Fondazione Marconi con il loro prezioso bagaglio di surrealtà, schegge letterarie, sogni, personaggi, oggetti quotidiani. Andrebbe rivalutato come si deve questo maiuscolo Tadini, che pur strizzando il pennello a R.B. Kitaj, David Hockney, Peter Blake e Patrick Caulfield elabora un personale, ammaliante stile pittorico da pop artista “sui generis” che predilige il tocco elegante, felpato. Se oltre al respiro metafisico e agli sfondi grigi, beige e celesti Vita di Voltaire (1967) è la sublimazione visiva dell’estetismo più aristocratico, L’uomo dell’organizzazione (1968) non solo punta l’attenzione di chi osserva sul mistero, l’irrisolto e la non-identità, ma su un metodo pittorico-narrativo capace di fondere sogno e spy story, Sigmund Freud e James Bond.
Il terzo ciclo, Color & Co del 1969, è invece quello più giocosamente legato al sentirsi “poppettaro”, alla tavolozza, al tubetto di colore da spremere con voluttà, mentre Circuito chiuso del 1970 si misura con un’arte concettuale architettata con nature morte, tubi catodici, nudi e schermi tv dove «tutto accade davanti ai nostri occhi… il pensiero si ripara… dietro lo sguardo». Infine Viaggio in Italia (1971), Paesaggio di Malevič e Archeologia (1972), cicli dove le situazioni reali sono più che mai immerse in un’incessante attività onirica che si fa surrealista e poi metafisica – e viceversa – delineando esplorazioni, destinazioni, astrattismi geometrici, design e “presenze” nello stile di Giorgio de Chirico. Accanto ai quadri, l’esposizione presenta una selezione di disegni e grafiche testimoniando quanto Emilio Tadini abbia sempre affiancato tela, carta, pittura e disegno nei suoi “racconti per immagini” che non hanno mai mancato di evidenziare il suo talento di scrittore e saggista.
Emilio Tadini 1967-1972
Davanti agli occhi, dietro lo sguardo
Fino al 19 luglio 2019, Fondazione Marconi, via Tadino 15, Milano
tel. 0229419232
Foto: Color & Co n. 5, 1969
Archeologia con de Chirico, 1972
Viaggio in Italia, 1971
Copertina per un settimanale, 1968
collezione privata, courtesy Fondazione Marconi, Milano
Emilio Tadini ritratto nel cortile dello Studio Marconi in occasione della mostra Viaggio in Italia, ottobre 1971, © Enrico Cattaneo