Dice bene Jeff Bridges, l’indimenticato Dude che nel film Il grande Lebowski sballava per loro disprezzando gli Eagles e che oggi fa da perfetta voce narrante in Travelin’ Band: Creedence Clearwater Revival at the Royal Albert Hall, il documentario che affianca la pubblicazione in molteplici formati audio (Lp, Cd, streaming e anche cassetta) di un concerto che si pensava perduto negli archivi. «I nomi di John, Tom, Stu e Doug potevano suonare meno familiari di quelli di John, Paul, George e Ringo, ma i Creedence in quel momento sfidavano i Beatles per il titolo di gruppo più popolare del mondo». Il momento era l’alba degli anni 70, che i “Fab Four inglesi”affrontavano in ordine sparso dopo il clamoroso scioglimento e a cui i “Fab Four californiani” arrivavano invece dopo 12 mesi da favola in cui avevano piazzato 3 album (3!) e 5 singoli nella Top Ten americana compilata da Billboard.
Restaurati e remixati dal produttore Giles Martin e dal fonico Sam Okell (lo stesso team che ha lavorato alle edizioni del cinquantenario di Abbey Road e di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, nonché all’audio del biopic Rocketman di Elton John e al The Beatles: Get Back Series di Peter Jackson), i nastri multitraccia di Live At The Royal Albert Hall riproducono nello splendore del “full radial stereo” l’intera performance del 14 aprile 1970, 1° di 2 show londinesi nel bel mezzo di un tour europeo che li vide esibirsi anche in Olanda, Germania, Danimarca e Francia. L’ombra dei Beatles (ancora loro…) aleggiava sulla capitale: solo 5 giorni prima, Paul McCartney aveva diramato alla stampa britannica un’auto intervista in cui annunciava la fine della loro storia; e i Creedence Clearwater Revival planavano nel Regno Unito al momento giusto per raccoglierne simbolicamente l’eredità di numeri 1 della scena musicale mondiale.
Creedence Clearwater Revival: Tom Fogerty, Stu Cook, Doug Clifford, John Fogerty
Il “vero” concerto alla Royal Albert Hall (quello che nel 1980 uscì inizialmente con quel titolo, poi corretto in un più generico In Concert, era in realtà stato registrato qualche mese prima all’Oakland Coliseum) fotografa uno stato di grazia: i CCR si rendono conto di avere il pubblico in pugno e snocciolano un’infallibile scaletta di 12 brani senza perdere tempo in chiacchiere (giusto il tempo per qualche “thank you”) e quasi in apnea, senza prendere fiato. Per una band abituata a lavorare “live in the studio”, diventava naturale e abbastanza semplice proporre sul palco versioni molto simili a quelle consegnate ai dischi del loro repertorio: pezzi per 2 chitarre, basso e batteria che, in sintonia con la celebre definizione che del country diede Harlan Howard, si basavano su «tre accordi e la verità».
Giusto un filo più grezzi e più aggressivi, nel timbro tagliente delle sei corde e soprattutto nella voce robusta come un tronco di sequoia e speziata come un bourbon del Kentucky di John Fogerty, il padre padrone autore di tutte le canzoni e con il look da boscaiolo un po’ hippie, caschetto di capelli castani stile British Invasion e camicia di flanella a quadri molti anni prima che diventasse l’uniforme del grunge. Il baffuto (e occhialuto) Stu Cook al basso e il barbuto Doug Clifford alla batteria formavano una sezione ritmica muscolosa e senza fronzoli, una macchina da groove che era la versione bianca dei Funk Brothers di scuola Motown; mentre Tom Fogerty, il vecchio leader e fratello maggiore messo in ombra dal talento e dall’ego (entrambi smisurati) di John, si adeguava (ancora per poco) al ruolo di mediano, svolgendo un oscuro ma preziosissimo lavoro di sostegno alla chitarra ritmica.
Veniva facile, anzi spontaneo, scambiarli per autentici ragazzi del Sud degli Stati Uniti, nati e cresciuti da qualche parte fra la Louisiana e il Mississippi. Soprattutto dopo avere ascoltato quel tremolo di chitarra, prototipo dello swamp rock, che lanciava il pezzo di apertura del concerto, Born On The Bayou: evocando paludi e alligatori, muschi e cipressi, climi torridi con un’umidità al 90%, sortilegi e latrati di cani, regine del Cajun e treni merci in viaggio verso New Orleans, Fogerty cantava con il suo timbro maschio e tenorile un paesaggio immaginario che s’era creato in testa mentre scriveva i pezzi in una spoglia stanza di El Cerrito, piccola cittadina costiera a 25 km. da San Francisco. Lì vicino, nella metropoli più libertaria d’America, i Jefferson Airplane incitavano ancora alla rivoluzione nelle strade e i Grateful Dead in trip mistico riflettevano su morte e resurrezione prendendo a simbolo una stella nera. I Creedence no, loro restavano con i piedi per terra cantando la vita di provincia e la classe operaia. Alimentati ad alcool invece che con pasticche d’acido, non ambivano a esplorare nuovi orizzonti ma piuttosto, come ribadiva l’ultima parte del loro nome (Revival), a rivivere rendendola contemporanea la musica bianca e nera con cui erano cresciuti, il rockabilly e il blues, il country & western e l’r&b.
In Fortunate Son, particolarmente furiosa nella versione della Royal Albert Hall, davano voce a chi, non avendo avuto la fortuna di nascere con un padre senatore e con “una forchetta d’argento tra le mani”, veniva spedito a morire in Vietnam, dimostrando di saper cogliere – e da un’angolazione diversa e proletaria – lo spirito del tempo. A Londra la eseguirono subito dopo Travelin’ Band, il nuovo 45 giri che celebrava la vita del musicista on the road al ritmo del rock and roll di Little Richard, omaggiato più tardi anche con la cover di Good Golly Miss Molly (ravvisando una sospetta somiglianza tra i 2 brani, gli editori di Mr. Penniman intentarono al gruppo una causa per plagio poi risolta in sede extragiudiziale). Era l’altra faccia della medaglia, quella più spensierata e vintage, di un autore e di una band capaci di condensare l’epica e la quotidianità dell’American way of life in canzoni formato juke-box da 2 o 3 minuti, ma anche di espandersi nel finale agli 8 minuti e ½ di Keep On Chooglin’, un boogie sferragliante in cui John ripete ossessivamente un verbo di sua invenzione che esprime voglia di ballare, di scatenarsi e divertirsi, soffia in un’armonica e sfodera un solismo elementare ma grintoso, efficace e mai abbastanza lodato.
3 mesi prima dell’uscita nei negozi di quell’altra formidabile fabbrica di hit che rispondeva al nome di Cosmo’s Factory (il loro best seller in assoluto), alla RAH di Londra i Creedence sfornavano una dose generosa di successi condendola con qualche pezzo meno scontato: come il bluesaccio Tombstone Shadow, tonalità dark e clima minaccioso alla faccia della nomea di gruppo da classifica; e una tambureggiante Commotion il cui passo concitato esprime il ritmo frenetico della vita urbana.
L’amore per le radici e il ricco vocabolario della band si estrinsecano nelle esecuzioni di The Night Time Is The Right Time, il classico di Ray Charles e di James Brown; e della celebre prison song The Midnight Special, la cui autentica origine sudista fa il paio con quella meravigliosamente fasulla di Proud Mary, il 1° grande hit scritto da Fogerty proprio il giorno in cui sullo zerbino di casa gli arrivò la lettera di congedo permanente dall’esercito («Quando la provammo con il gruppo, mi sentii come Cole Porter», dichiarerà in seguito). La conoscono tutti, grazie anche ad Ike & Tina Turner: un evergreen universale e intergenerazionale impiantato nell’immaginario collettivo che funziona da propulsore infallibile anche sul palco così come la grintosa, incalzante e autobiografica Green River, gran riff e memorie adolescenziali di vacanze estive trascorse fra pesci gatto, rane toro, libellule, vagabondi che viaggiano di nascosto sui treni e ragazze che ballano a piedi nudi al chiaro di luna: la stessa luna che nell’altro smash hit Bad Moon Rising è invece foriera di cattivi presagi e di un’apocalisse prossima ventura (perfetta per il cinema e per Hollywood, oltre che per la Royal Albert Hall: nei primi anni 80 comparirà nelle colonne sonore di Un lupo mannaro americano a Londra e di Ai confini della realtà).
Le cronache raccontano di una standing ovation di 15 minuti al termine dello show londinese, seguita da recensioni entusiastiche sul Times e sul New Musical Express; e l’ascolto di Live At The Royal Albert Hall non lascia dubbi sul fatto che la corona dei Creedence Clearwater Revival, in quel momento, fosse cosparsa di polvere magica. Nei 2 anni successivi accadrà di tutto, gloria e miseria (il divorzio astioso e mai ricomposto con Tom, i litigi e il brusco scioglimento a fine 1972) che lasceranno in sospeso 1 dei grandi misteri del rock: dopo un quinquennio formidabile e irripetibile in cui aveva sfornato successi e canzoni memorabili, il John Fogerty solista (tuttora una forza della natura dal vivo) è stato avaro di hits e altri cantori dell’America profonda hanno preso il suo posto.