Con una band nata quasi per hobby 4 anni fa e che ancora non ha pubblicato un solo disco, Robert Plant ha forse appena incassato il suo maggiore successo in Italia da quando si propone come artista “solista ” (virgolette d’obbligo, perché per lui – sempre pronto a fare un passo indietro e a concedere spazio, quando risulta utile alla canzone – lo spirito di gruppo e l’interscambio fra i musicisti hanno sempre un’importanza cruciale). 7 date, compresa quella del 5 settembre al Teatro Arcimboldi di Milano, accolte con calore, entusiasmo e affetto travolgente da un pubblico che sembra avere fatto pace con la sua ostinazione a non riformare i Led Zeppelin comprendendo l’onestà e la lungimiranza del suo percorso artistico.

Plant oggi ha tanto altro per la testa e almeno 3 (se non 4) progetti musicali differenti in corso. Nel 2022 l’avevamo visto a Lucca con Alison Krauss in un concerto purtroppo azzoppato dallo stato febbrile della cantante dell’Illinois: poche analogie, se non che in entrambi i casi si tratta di 2 juke box vintage, cromati e scintillanti, di contenitori pregiati di titoli ripresi dal miglior songbook angloamericano. Allora country, soul, blues, rockabilly e r&b alla maniera di New Orleans; oggi folk tradizionale, indie rock, psichedelìa e ancora blues, di nuovo con una spruzzata di Zeppelin e un’altra interprete femminile con cui dialogare in intimità modulando armonie alla ricerca di una terza, fantasmatica voce. Là, la crema dei turnisti americani del giro nashvilliano e del produttore T Bone Burnett, grande orchestratore dell’album Raise The Roof; qui, un quartetto abituato come Robert a frequentare le Marche gallesi nei territori di confine con l’Inghilterra: i Saving Grace alias la portoghese Suzi Dian (voce solista, fisarmonica e basso), Tony Kelsey (chitarre e mandolino), Matt Worley (chitarre, banjo, cuatro) e Oli Jefferson (batteria), gente semisconosciuta e meno scafata ma affamata di musica che dispensa grinta, entusiasmo e urgenza espressiva mettendoci corpo e anima. Gli spettatori lo percepiscono dalle prime note, quando salgono su un palco spoglio e ridotto all’essenziale: la foto di un bisonte americano riprodotta su un telone, poche luci governate da 4 riflettori collocati ai lati dei musicisti.

Quando entrano in scena (per ultimi i 2 vocalist, davanti agli altri 3 schierati sulla stessa linea) Plant è accolto da una fragorosa standing ovation e si capisce subito che sarà una serata speciale: una base preregistrata di violino e percussioni introduce un energico e intenso abbrivio a base di folk appalachiano e di folk anglo-irlandese, la Gospel Plow che Bob Dylan incluse nel suo 1° album nel 1962 e The Cuckoo di cui si contano innumerevoli versioni tra Shirley Collins e i Pentangle, Doc Watson e Taj Mahal. Standard ultracentenari (come la successiva As I Roved Out) persi nella notte dei tempi e recuperati sul campo da ricercatori come Alan Lomax, riarrangiati dai Saving Grace con piglio deciso, mordente, sentimento e assoluta padronanza del linguaggio fra arpeggi, note di bordone e ritmi ancestrali, mentre Robert accenna scherzosamente qualche passo di danza tradizionale.

Con Let The Four Winds Blow, un pezzo originale da lui scritto e registrato nel 2004 con gli Strange Sensation per Mighty ReArranger, arriva il momento delle chitarre elettriche e del 1°, breve e bruciante assolo di Kelsey mentre Suzi imbraccia un basso Hofner a forma di violino come quello di Paul McCartney. Non hai ancora preso fiato quando in sala esplode l’esotica e incalzante sequenza di accordi di Friends, 1° ripescaggio (saranno 4 in totale) dal catalogo Zeppelin che fino al tour precedente era completamente assente dalle scalette della band (si sarà deciso, Plant, dopo avere considerato la sua crescente popolarità dopo gli inizi rigorosamente underground?). Invitate al battimani, platea e galleria si scaldano subito, sapientemente illuminate dalle luci di sala mentre lui sembra compiaciuto e quasi stupito di tanta devozione.

Non sono mai accondiscendenti crowd pleaser ma scelte coerenti con il mood e il filo narrativo del concerto, i brani ripresi dal repertorio del Dirigibile, affluenti di un grande e impetuoso fiume che ingloba decenni e secoli di musica. Non ci sono le hits, in altre parole: non c’è Whole Lotta Love e men che meno Stairway To Heaven, interpretata dal vivo un’ultima volta durante la reunion a Londra nel 2007 in omaggio ad Ahmet Ertegun, fondatore dell’etichetta Atlantic. C’è invece una magica The Rain Song, la fisarmonica di Dian al posto del mellotron di John Paul Jones e quel sapiente gioco di chiaroscuri, di pianissimo e fortissimo che Plant pratica dai tempi antichi e che rappresenta anche la chiave di volta di uno show in cui oltre ai riccioli biondi e ai pantaloni neri di pelle sfoggia ancora una sorprendente freschezza vocale e una ricca gamma timbrica, fra suadenti fraseggi quasi sussurrati e un uso parsimonioso del celeberrimo urlo di guerra adeguatamente sostenuto da echi, effetti e altri booster.

Robert Plant

Ci sono il mix di tempi pari e dispari, l’andamento flessuoso e l’aroma marocchino di Four Sticks, c’è (nei bis) il folk impetuoso di Gallows Pole in cui i Saving Grace ingranano la marcia più alta entrando in piena trance performativa, mentre Robert ci infila una fugace citazione di Black Dog. Con Out In The Woods, dal palco si alzano gli spettri paludosi e l’aria appiccicosa della Louisiana: è Worley, basco, muscoli tatuati e l’aria di uno che ha appena parcheggiato l’Harley Davidson fuori dal locale, a ritagliarsi il ruolo di contraltare solista alle voci di Plant e Dian (è proprio nel suo pub, lo Swan di Stourport nel Worcestershire, che i 5 componenti della band si sono incontrati), mentre nell’unico pezzo country in scaletta l’angelica, soave ma vigorosa Suzi dimostra di avere poco da invidiare ad Alison con il suo abito lungo a rombi e la limpidezza vocale da ammaliante sirena: non è uno standard ma un brano recente, Too Far From You, scritto dalla cantautrice Sarah Siskind per la serie tv americana Nashville cui Plant è sicuramente arrivato per tramite dei produttori musicali del programma, Burnett e poi Buddy Miller. Quest’ultimo è anche suo partner musicale in quella Band Of Joy dal cui album del 2010 il gruppo riprende 3 titoli. Il 1°, il gospel Satan Your Kingdom Must Come Down (con in coda un accenno alla In My Time Of Dying incisa anche dagli Zeppelin) è un colpo da maestro, un’invocazione sciamanica che agita un talismano contro questi tempi bui dominati dalle forze del male: la slide di Kelsey e il suoi riverberi creano uno scenario teso, cupo e lugubre contrastato dal calore e dal tono accorato delle 4 voci umane.

Un concerto come questo lascia spazio anche a momenti di raccordo e a vecchi ricordi. Robert racconta della sua infatuazione giovanile per il blues di Robert Johnson, di Howlin’ Wolf, di Blind Willie Johnson, di Bo Diddley e di come si appassionò alla cultura bohémienne con cui entrò in contatto a Londra, a Parigi, a New York, a Memphis, a Detroit e persino a Milano: è il momento della rievocazione di quando, «nel ’70 e qualcosa», i Led Zeppelin si spaventarono a morte annaspando come il pubblico tra le cariche e i gas lacrimogeni del Vigorelli. Quei tempi burrascosi vengono ricordati con ironia, mentre il sogno dell’estate dell’amore e l’utopia californiana rivivono con It’s A Beautiful Day To Day dei Moby Grape, meravigliosa e solare delicatezza floreale made in San Francisco. Plant cita anche Donovan e ti aspetteresti, come nel tour precedente, la sua Season Of The Witch: a colorarsi di psichedelìa, invece, è la sua reinterpretazione del blues Chevrolet, coautrice quella Memphis Minnie che in quei “70 e qualcosa” gli zeppeliniani impararono a conoscere grazie a When The Levee Breaks.

«Saltiamo al 1993, un periodo molto più sicuro e con molti meno lacrimogeni», annuncia il frontman presentando Down To The Sea da Fate Of Nations, il suo ondeggiante rock a tinte etniche che s’impenna anche nei volumi ma non quanto in una acre, spigolosa e febbrile rivisitazione di Everybody’s Song dei Low: insieme al roots rock rombante e latineggiante di Angel Dance (Los Lobos), un’altra dimostrazione di come il suo spirito indomito di esploratore musicale non si sia mai sopito e le sue orecchie non abbiano mai smesso di funzionare. Al repertorio Band Of Joy appartiene anche House Of Cards di Richard & Linda Thompson: per il suo autore e per il suo 1° gruppo, i Fairport Convention, Plant spende parole di grande e quasi devota ammirazione ricordandone il ruolo pionieristico nella nascita del folk rock britannico. Come chiamare questa sua rielaborazione musicale, invece? Folk? Americana? Forzando un po’ i termini, Robert preferisce parlare di «soul psichedelico»: quel che è certo che le sue sono scelte raffinate, da intenditori; e che la sua cover band di lusso, delle cover band tradizionali rappresenta l’antitesi filosofica, rivolta com’è all’avventura e al rinnovamento perpetuo. Come Bob Dylan e pochissimi altri, Plant prosegue imperterrito per la sua strada. Per nulla interessato a dare in pasto alla gente ciò che si aspetta, a confezionare un greatest hits da servire alla platea, a celebrare il santino di se stesso e il mito del Dio del Rock.

Robert Plant and Saving Grace featuring Suzi Dian

Chissà quanta parte del pubblico, entusiasta e accogliente come non mai nei suoi confronti, coglie le sfumature e i rimandi storici di quel repertorio: anche quando alla fine i 5 si radunano intorno a un microfono per intonare un altro gospel, il classico And We Bid You Goodnight del bahamense Joseph Spence che i fan del rock conoscono grazie alla Incredible String Band (una vecchia passione di Plant) e soprattutto ai Grateful Dead. Come la band di Jerry Garcia, Robert la usa per accommiatarsi con grazia e gentilezza prima che uno spettatore gli butti sul palco una maglietta da calciatore e che tutta la band si produca in ripetuti inchini. È una chiusura dolce, soave, empatica, con un messaggio edificante, confortante e spirituale («Vi amo, ma Gesù vi ama ancora di più»). Dopo 1 ora e ¾ di concerto, dopo le murder ballads, la musica del diavolo e il rock and roll, dopo l’alternarsi di chitarre acustiche ed elettriche, miglior modo di augurare la buona notte e chiudere una serata pressoché perfetta non potrebbe esserci. Tanto che quando salgo in auto per avviarmi verso casa l’istinto mi consiglia di tenere spenta l’autoradio. Non voglio sporcare quel silenzio pieno di musica, desidero che quelle canzoni e quel sound continuino a suonarmi in testa il più a lungo possibile.

Setlist

Gospel Plow (traditional ), The Cuckoo (traditional ), Let The Four Winds Blow (Robert Plant and the Strange Sensation), Friends (Led Zeppelin), Out In The Woods (Leon Russell cover), Too Far From You (Nashville Cast cover), Satan, Your Kingdom Must Come Down (traditional ), Everybody’s Song (Low cover), It’s a Beautiful Day Today (Moby Grape cover), The Rain Song (Led Zeppelin), As I Roved Out (traditional ), Chevrolet (Lonnie Young, Ed Young & Lonnie Young, Jr. cover), Down To The Sea (Robert Plant), Four Sticks (Led Zeppelin), Angel Dance (Los Lobos cover).

Bis

House Of Cards (Richard & Linda Thompson cover), Gallows Pole (traditional/Led Zeppelin), And We Bid You Goodnight (traditional ).