Alzi la mano qualsiasi maschio eterosessuale che abbia compiuto 14/20 anni fra il 1975 e il 1978, appassionato di rock, che non sia andato fuori di testa per Debbie Harry la cantante dei Blondie, non propriamente considerato un gruppo ma solo il soprannome della bellissima di Miami.

All’epoca, pur considerandola un frutto proibito, nessuno la pensava esageratamente distante. Sembrava, Debbie, una ragazza appena più grande dei suoi fans : d’altronde non esisteva ancora Wikipedia a informarci che nel 1975 aveva già compiuto 30 anni e lavorato come cameriera/coniglietta di Playboy in uno dei locali di Hugh Hefner; ma soprattutto al Max’s Kansas City, tempio dell’underground newyorchese nonché luogo d’elezione dei Velvet Underground e della Factory di Andy Warhol.

Debbie Harry e il suo ritratto, dipinto nel 1980 da Andy Warhol

La sua folgorante bellezza non ha mai fatto apprezzare del tutto il repertorio dei Blondie, anche se non era tanto lei il “deus ex machina” del prodotto quanto il chitarrista e compagno di vita Chris Stein. La gioventù per così dire “impegnata”, non trovava abbastanza rock la loro musica: lo confermavano i 2 maggiori successi, Denise prima e Heart Of Glass poi, che facevano il pieno in discoteca. Ragion per cui la band era uno schianto: in positivo, quando si parlava di Debbie Harry; in negativo, quando si parlava della loro musica. Anche se, sottotraccia, qualcuno aveva definito i Blondie punk, o al limite new wave: forse perché i maschi del gruppo, se avessero indossato gli occhiali scuri, avrebbero mostrato una qualche somiglianza con i Ramones.

Solo oggi, grazie a YouTube, li si può valutare a tutto tondo; e dai video dei loro concerti possiamo dedurre che la costruzione dei loro brani era sostenuta da un’ottima base ritmica: il batterista Clem Burke non è certo fra quelli più famosi, ma offre un sostegno sostanzioso ai pezzi più duri del gruppo; e più raffinato a quelli più commerciali. Si può dire che la sua versatilità abbia contribuito all’indubbia varietà musicale di composizioni che vanno dal melodico a un hard rock non eccessivo e sempre di buona fattura.

Poi c’è lei, Debbie. Se la confrontiamo dal punto di vista musicale e scenico con altre frontwomen, francamente non ci siamo: la sua voce non aveva grande estensione e perciò non poteva permettersi particolari virtuosismi; la presenza scenica era alquanto mediocre e anche il look da concerto non era nulla di straordinario. Insomma, non aveva la forza vocale di Grace Slick, non era una leonessa alla maniera di Lita Ford o di Joan Jett e tantomeno una stilosa rockeuse come Pat Benatar, tanto per rimanere negli USA e alla stessa generazione.

A questo punto, chi legge dovrebbe dedurne la sostanziale inutilità, ma non si può negare che quando le canzoni viaggiavano verso una dimensione vagamente “confidential ” come in Heart Of Glass, ma soprattutto nella sensualissima In The Flesh, la sua voce si esprimeva al meglio. Rimane però un dubbio: adeguatamente guidata a livello di produzione, Debbie Harry avrebbe potuto essere una vocalist ancora migliore, perché quando si è messa nelle mani di Giorgio Moroder, in modo quasi indipendente dai Blondie, ha dato vita a 2 imprevedibili successi mondiali: Call Me, a mio giudizio fattore non secondario dopo Richard Gere del successo del film American Gigolò (1980); e nel 1999 il singolo Maria, scritto da Jimmy Destri, ex tastierista dei Blondie.

Nel 1° pezzo, la martellante partitura elettronica è in perfetta simbiosi con la voce della Harry, per quanto non proponga particolari virtuosismi che troviamo invece in Maria, brano di notevole ingegno, rock pulsante e insieme melodia, dove la voce parte quasi con un parlato per poi crescere e toccare un’estensione abbastanza alta, molto rara nella Debbie degli anni d’oro. L’età, dunque, ha tutt’altro che peggiorato le sue qualità vocali.

Debbie Harry e Iggy Pop

Vorrei infine ricordare la collaborazione del 1990 con Iggy Pop. Era destino che lei e l’Iguana, prima o poi, si sarebbero trovati in sintonia (somigliandosi molto più di quanto non possa sembrare). La loro cover di Well, Did You Evah!, canzone scritta da Cole Porter nel 1939 e interpretata da Bing Crosby e Frank Sinatra nel film Alta società (1956), è un gradevolissimo esercizio di stile, ironia e autoironia. Doti che nessuno avrebbe detto appartenere a Debbie & Iggy nei tempi d’oro.