A volte bastano 10 minuti per cambiarti vita, carriera e prospettive (a patto che tu sia un genio della canzone pop). Un gesto di apparente routine, che diventa un lampo d’ispirazione agguantato chissà dove e che squarcia il velo della consuetudine.

Il 16 gennaio 1972 Elton John, la sua band, il paroliere Bernie Taupin, il produttore Gus Dudgeon e il fonico Ken Scott si trovano al Château d’Hérouville, in Francia, per registrare un nuovo album lontano da tutto e da tutti, in un castello del 18° secolo narrato da Honoré de Balzac, frequentato dagli amanti Frédéric Chopin e George Sand e da qualche anno riconvertito in studio di registrazione residenziale con un 16 piste in dotazione (ci sono già passati i Canned Heat, Memphis Slim, i Grateful Dead e i Gong).

Dopo colazione, il musicista legge un testo scritto durante la notte da Taupin, si mette al pianoforte e di botto, sotto lo sguardo incredulo di Scott, inventa la melodia e la linea vocale di Rocket Man (sottotitolo: I Think It’s Going To Be A Long Long Time). Canta la storia strana e intrigante di una specie di travet dello spazio, che 5 giorni a settimana è costretto dal lavoro ad abbandonare casa, moglie e pianeta Terra soffrendo di solitudine e di malinconia. Una canzone da era spaziale, dopo i primi sbarchi sulla Luna e dopo che David Bowie aveva inciso Space Oddity, riconosciuta fonte d’ispirazione del testo insieme a una serie di racconti brevi di Ray Bradbury e a un pezzo quasi omonimo registrato dai Pearls Before Swine di Tom Rapp.

Elton John

È la canzone di Honky Château che tutti conoscono e che pubblicata nel marzo di quell’anno come 45 giri e assaggio dell’album, spalancherà al suo coautore le porte del mondo e dell’adulazione planetaria, anche se né lui né Taupin l’avevano concepita come singolo ritendendosi ancora artisti “seri ”, “da album ”, che in classifica c’erano finiti solo con Your Song e, in America, con un paio di hitminori ” come Levon e Tiny Dancer. Invece il pezzo salirà al N°2 delle classifiche inglesi e al N°6 di quelle americane, dove conquisterà 3 dischi di platino catapultando l’uomo di Pinner, Middlesex, in una dimensione nuova e sconosciuta com’è in fondo anche il sound di quel brano. 4 minuti e 41 secondi, incipit memorabile, melodia che s’impenna verso la stratosfera, fraseggio ricco ed eloquente di piano, voce magnetica e autorevole, i cori perfetti dei 3 compagni di band e un paio di tocchi geniali in più orchestrati da Dudgeon: i glissando vertiginosi della slide elettrica e trattata di Davey Johnstone, i gorgoglii malinconici del sintetizzatore A.R.P. manovrato da David Hentschel, aiuto fonico e “ragazzo del tè ” ai Trident Studios di Londra, dove l’équipe si sposta per le sovraincisioni finali.

Johnstone, che proveniva dalla folk band Magna Carta e che prima di allora non aveva mai imbracciato una chitarra elettrica, è l’ultimo, essenziale tassello di una formazione finalmente lasciata libera di esprimersi anche su disco oltre che dal vivo, sostituendosi completamente allo stuolo di session men dei dischi precedenti. Insieme alla già rodata sezione ritmica composta da Dee Murray al basso e da Nigel Olsson alla batteria, regala all’Lp un suono compatto, naturale, asciutto (niente orchestra, stavolta); un suono rock, funky, caldo e sensuale, ricco di groove, terragno e seppiato come i colori della copertina che ancora una volta trova corrispondenze con quello generato oltreoceano dalla Band: ad esempio in una splendida ballata come Mellow, dove sembra di ascoltare a un certo punto il caratteristico timbro distorto dell’organo di Garth Hudson. È invece un’invenzione di Scott: un violino elettrico filtrato attraverso un altoparlante Leslie suonato da Jean-Luc Ponty, virtuoso strumentista jazz che 2 anni prima aveva pubblicato un disco con musiche di Frank Zappa e che, residente a Parigi, viene invitato a far visita al castello, 40 km. a Nord Ovest della capitale.

Non è l’idea più bizzarra e spiazzante del disco, comunque, perché subito dopo, in I Think I’m Going To Kill Myself – saltellante e ironico vaudeville a dispetto del titolo e di un testo che affronta i pensieri suicidi e i moti di ribellione di un adolescente – si sente distintamente in stereo un “assolo di piedi ”: sono quelli di “LegsLarry Smith, batterista del gruppo avant garde/satirico/demenziale Bonzo Dog Doo-Dah Band, impegnato a ballare un tip tap di cui è specialista (lo farà anche in tournée, e persino davanti alla famiglia reale d’Inghilterra sotto lo sguardo preoccupato dei produttori dello show televisivo Royal Variety Performance).

La musica sa di jazz e di New Orleans: non è una grande sorpresa, dato che l’America e il profondo Sud degli States da sempre alimentavano i sogni e l’immaginario di Elton e Bernie, ancora di più dopo i primi tour oltreoceano rimasti impressi nella loro memoria. Tanto che anche l’iniziale, vivace e scoppiettante honky tonk fiatistico di Honky Cat, inciso in Francia con 2 sassofonisti, 1 trombettista e 1 trombonista jazz locali, evoca esplicitamente la Crescent City nel testo e nella musica; e troverà orecchie ben disposte negli Stati Uniti quando verrà pubblicato come 2° singolo estratto dall’album entrando in Top Ten.

L’umore è spesso positivo, abbondano gli uptempo e c’è molta America anche nell’incalzante e ritmato rock chitarristico di Susie (Dramas), nel gospel pop di Salvation, nel country rock (senza pianoforte!) di Slave, nel doo wop di Hercules che sembra anticipare le nostalgie anni 50 di Crocodile Rock e in una Amy annerita e quasi soul, di nuovo con Ponty al violino elettrico e con le percussioni di Ray Cooper, prossimo anche lui a entrare stabilmente nel gruppo e a diventare inseparabile side man di Elton; ce n’è anche in Mona Lisas And Mad Hatters, magnifica ballad fra le più amate dal suo autore e di cui Taupin ha scritto il testo in occasione della sua prima visita newyorkese citando la Spanish Harlem di Ben E. King (verrà scelta molti anni dopo, nel 2000, da Cameron Crowe per commentare una delle scene più toccanti di Quasi famosi: quella in cui la protagonista Kate Hudson finisce in overdose dopo avere mischiato quaalude e champagne).

Scritta anch’essa, insieme a Rocket Man e a Amy in quella prima, proficua mattina di lavoro al Château: tutte e 3 incluse anche nel set di 8 brani che il 5 febbraio 1972 presentò in anteprima, pochi giorni dopo la registrazione, la quasi totalità del nuovo album in un famoso concerto alla Royal Festival Hall di Londra che, più dei vari demo e alternate versions inclusi nella confezione, rappresenta il vero “bonus” della ristampa del 50° anniversario del disco (solo nella versione su doppio Cd, però, e non in quella su doppio vinile).

Con Olsson, Murray, Johnstone e Cooper, Elton proietta in presa diretta il sound di una fantastica rock and roll band pronta al grande balzo e colta in azione prima che fama, successo e stardom raggiungano livelli giganteschi. Già a giugno, e sempre al Château, il gruppo inizierà le registrazioni di Don’t Shoot Me I’m Only The Piano Player ma il sound sarà diverso e nulla sarà più come prima: Honky Château rimarrà il magnifico disco di mezzo e di transizione, forse l’ultimo in cui gli estimatori di Tumbleweed Connection e di Madman Across The Water riconosceranno ancora l’Elton John che avevano amato.