New York City, 52nd Street, 19 agosto 1969. Miles Davis è negli studi della Columbia Records insieme alla sua nuova band elettrica, con cui l’anno prima ha creato In A Silent Way, l’album capace di rivoluzionare il jazz canonico aprendo all’elettrico, alle nuove tecnologie, alle suggestioni rock che in quegli anni permeavano ogni espressione artistica. L’amicizia di Miles con il pianista austriaco Joe Zawinul l’ha indirizzato verso nuovi, inesplorati territori elettrici. Giunge quindi l’ora di dare un seguito, imprimere una svolta catartica al suo mondo musicale, al suo linguaggio sempre teso alla novità, al domani. Il trombettista, in passato, aveva già rivoluzionato svariate volte il lessico jazzistico passando dal bop di Charlie Parker al cool, dal mainstream al modale, sino all’informale.

Miles Davis, NYC, 1970, © Glen Craig

Nella sua vita privata, invece, molte cose sono cambiate e non sempre in meglio: il contratto con la Columbia è appena stato ridiscusso a fatica e ha divorziato dalla moglie iniziando a frequentare Betty Mabry, giovane cantante che lo introduce al rock, al funk, alle nuove tendenze. Gli abiti italiani di sartoria hanno lasciato il posto a giacche in pelle, vistosi occhialoni neri, orologi di marca, bracciali, un abbigliamento eccentrico simile a quello dei rocker. E proprio il successo commerciale delle rock band dell’epoca è alla base del cambiamento musicale che Miles impone alla sua opera. Vuole raggiungere più pubblico possibile, influenzare in modo determinante i giovani, arrivare alla massa dei suoi fratelli neri che in quegli anni si erano parzialmente allontanati dal jazz. L’ascolto (incoraggiato da Betty) di musicisti quali Jimi Hendrix, Carlos Santana e Sly & the Family Stone, unitamente alle suggestioni elettroniche di Karlheinz Stockhausen e della nuova scena classico-contemporanea, saranno i germi per la nuova musica… E ancora una volta sarà lui, il “principe delle tenebre” a indicare la nuova direzione. Non a caso, il sottotitolo di Bitches Brew sarà Directions in Music.

Bitches Brew è un gioco di parole: in inglese l’espressione “witches brew” significa “pozione magica”, ma anche “calderone delle streghe”. La parola “bitch“, poi, vuole dire “puttana“, ma nel gergo jazzistico ha un forte significato di apprezzamento, di plauso. Il verbo “bitching“, invece, qualcosa di pregevole, di buono… Miles Davis vuole indicare a tutti che la musica proposta è “roba buona“. E dopo aver trascorso tutto il 1969 a suonare in vari festival rock, dall’Isle of Wight al Fillmore, il “divino” è pronto a dare alle stampe l’ennesimo capolavoro.

Per la celebre copertina viene scelta un’opera di Mati Klarvein, incentrata sulla dualità: una coppia che guarda in lontananza l’orizzonte, oltre il mare che si fonde con le nuvole; un fiore che è anche fuoco; 2 mani che s’intrecciano e diventano un volto bifronte, rivolto verso il cielo bianco e nero. La musica, invece, nasce da un’improvvisazione collettiva in studio e contrariamente a quanto dice la leggenda – ovvero che ci sia stato un grande lavoro di postproduzione “orchestrato” dal produttore Teo Macero – il tutto esce dalla tromba davisiana e dalla risposta dei musicisti. In studio Miles porta la “crema” degli strumentisti dell’epoca: da Jack DeJohnette alla batteria, il più innovativo, al quale viene contrapposto il giovanissimo Lenny White; a Joe Zawinul al piano elettrico affiancato da Chick Corea e da Larry Young; ai percussionisti Jumma Santos, Airto Moreira e Don Alias; al chitarrista John McLaughlin; al sassofonista (qui al clarinetto basso) Bennie Maupin; a Wayne Shorter al sax soprano; ai bassisti Dave Holland e Harvey Brooks. Il gotha del jazz di allora… e  tuttora.

Il 1° brano ad aprire le danze è Pharaoh’s Dance, a firma Joe Zawinul: 20 minuti di free form elettrica dove si stabilisce il clima, le intenzioni musicali. Un magma incandescente che permette a Miles di stagliarsi su un tappeto ritmico straordinario per inventiva e creatività, mai ascoltato prima. Da qui nascerà la nuova musica che sfocerà nel fenomeno jazz rock, dando i natali a band come Weather Report, Mahavishnu Orchestra, Return to Forever, Eleventh House, Soft Machine. La tromba del leader – raddoppiata in fase di postproduzione – e il grido lancinante del basso conferiscono al suono una dimensione cupa che invita a meditare sulla tecnologia e le sue infinite possibilità.

Siamo in presenza di una musica tutt’altro che facile ma al contempo godibile, che rapisce, che attanaglia in una sorta di mantra elettrico volto a purificarci dal superfluo per giungere all’essenza musicale in se stessa: come creazione istantanea, condivisione di intenti e proposte, rito sciamanico verso la purificazione, ponte verso quelle nuove avventure che Miles Davis esplorerà ancor più approfonditamente negli anni a venire.

Ciò che colpisce è il grado di partecipazione di tutti i musicisti, nessuno escluso, funzionali alla riuscita finale. Ognuno porta un contributo fondamentale, unico e insostituibile nell’economia della creazione. Un’atmosfera lisergica, ipnotica; un “trip” al quale l’ascoltatore non può che abbandonarsi, mentre lo spettrale clarinetto basso di Maupin introduce Spanish Key su cui si innesta il meraviglioso sax soprano del Maestro Wayne Shorter e la chitarra volutamente funky di Sir John McLaughlin, autentico protagonista del brano, al quale viene dedicato il seguente, eponimo episodio in cui il chitarrista si lancia in improvvisazioni libere, esprimendo tutto il suo talento. Raramente Miles ha lasciato così ampio spazio ai suoi collaboratori: era dai tempi del quintetto con John Coltrane e del 2° quintetto con Herbie Hancock, Wayne Shorter, Ron Carter e Tony Wlliams che un solista non avesse così spazio.

La chitarra di John e la tromba di Miles si inseguono, si stimolano, si provocano, si cercano, camminano. Anzi, corrono fianco a fianco, dialogano, litigano e poi si abbracciano. È un raro esempio d’energia elettrica alla massima potenza che conduce a Miles Runs The Voodoo Down, dov’è intuibile l’influenza di Jimi Hendrix: influenza che MAI ha significato “copiare” ma “trarre ispirazione“, portare alle estreme conseguenze le istanze elettriche, innovative, del chitarrista di Seattle. Le infinite possibilità d’espressione del genio. Passare dal jazz modale, dalle pentatoniche al tripudio elettrico, non dev’essere stato facile. Ma Davis lo fa sembrare un gioco da ragazzi e il brano si snoda su un riff di basso ostinato, caratteristica che riprenderà in futuro. Il sound è potente, dalle forti tinte rock, ma non si banalizza in una sorta di “canzone jazzata” bensì sviluppa tutte le possibiltà melodiche e cromatiche della composizione sviscerando ogni possibile evoluzione che la struttura del brano consenta di esplorare.

Il trombettista sul cofano della sua Lamborghini Miura in una foto per la rivista GQ, 1970, © Mark Patiky

Chitarra, tromba e sax svettano sul magma sonoro sotto di loro, esplodendo in assoli straordinariamente lucidi, coscienti, non minimamente influenzati dalla psichedelìa che potrebbe sviare dalla creazione musicale. Batteria e percussioni sostengono il tutto, interagendo come mai prima con i solisti, a tratti protagonisti, per poi rientrare nel ruolo d’accompagnamento del solista nel suo soliloquio. È un botta-e-risposta continuo, una tensione creativa difficile da sopportare anche per musicisti di questo calibro. Ma l’ascolto ci restituisce una musica che scorre fluida, densa, ispirata, coinvolgente. Chiude l’album Sanctuary, in cui Miles sembra voler tornare a sonorità più liquide, più morbide dopo l’orgasmo elettrico cui ci aveva condotto nei brani precedenti.

Vede la luce, Bitches Brew, il 30 marzo 1970. A primavera inoltrata. La primavera elettrica. È il disco che determina l’affermazione del jazz elettrico, sebbene l’anno precedente la rivoluzione l’avesse iniziata Tony Williams con i suoi Lifetime. Da quella scintilla Miles Davis accende e alimenta il fuoco, incendiando la scena musicale con le sue proposte, anticipatrici della musica che avremmo ascoltato nei decenni futuri. Fondere la creatività del jazz con l’energia del rock parve una bestemmia. Ma i risultati hanno tappato la bocca a tutti gli scettici. L’importanza storica di Bitches Brew sarebbe persino inutile ribadirla: ma ancora oggi, a 50 anni di distanza, l’emozione, lo sbigottimento, la sorpresa sono i medesimi. È musica che non ha paragoni, che non lascia possibilità di distrazione, che rapisce, che ci obbliga a ripensare lo stesso concetto di creazione musicale, di improvvisazione. Ancora una volta, Miles è il demiurgo che crea la nuova musica, il nuovo verbo; colui che indica la strada, che istruisce le nuove generazioni senza dimenticare il patrimonio del passato, la tradizione. Giacche di pelle e jeans a zampa d’elefante fanno solo da corollario alla rivoluzione, ben più profonda, che il trombettista intraprende. Ma Miles è anche questo: non solo rivoluziona la Musica (con la maiuscola) ma anche il costume, la politica, il sentire comune, l’abbigliamento, le mode… anche l’inutile.

Oggi gli strumenti elettrici e la postproduzione in fase di mixaggio sono la norma e i sintetizzatori la fanno da padroni… ancora una volta grazie a lui. Must have in ogni collezione di dischi che voglia definirsi tale, Bitches Brew è il brodo primordiale di tutto ciò che oggi state ascoltando. Persino la musica di un banalissimo spot pubblicitario, senza questo Lp, non sarebbe stata possibile. Quando l’ho acquistato e portato a casa ero in una sorta di trance. Quando la puntina è entrata nel solco e la musica ha iniziato a fluire invadendo la stanza, ho capito che nulla sarebbe stato più come prima. Volevo la musica elettrica, quella tromba che grida, che si staglia sul tutto. E quel sottofondo di batteria che mi ha fatto diventare batterista. Puoi studiare anche 20 anni al Conservatorio, ma l’emozione di quell’ascolto (avevo 17 anni) è stata un’autentica “masterclass” su come si suona e su cosa significhi creare Musica Elettrica.

© Don Hunstein

Ho avuto la fortuna – o meglio, l’occasione – d’incontrare Miles anni dopo, quando ero product manager per il Catalogo Jazz della Sony Music. L’11 marzo 1991, prima del concerto al Teatro Smeraldo di Milano,  mi sono presentato nei camerini con una copia di Porgy and Bess: quello con la copertina rosa, edizione limitata. Conoscevo il suo sassofonista di allora: Bill Evans, omonimo del sommo pianista, che mi ha introdotto a lui, il quale era seduto e stava bevendo una Perrier ghiacciata. Mi ha guardato con aria di sufficienza, apostrofandomi con un «Che cazzo vuole questo bianchino di merda?». Bill gli ha spiegato che ero un suo accanito fan e lavoravo per Sony Music. Lui ha aggiunto: «Oh, poverino…». Gli ho chiesto di autografarmi Porgy and Bess, Miles ha osservato il vinile e mi ha detto: «Dove cazzo lo hai trovato? Non ce l’ho nemmeno io!». Gli ho risposto che me lo ero aggiudicato a un’asta. Me l’ha firmato, liquidandomi con un «Ok, ora vai che devo pensare al concerto…».

Scontroso, odioso, maleducato, irriverente Miles Davis. Ma genio assoluto della musica del 20° secolo. Ricordo quell’episodio con tenerezza, anche perchè qualche mese dopo – il 28 settembre 1991 – Miles ha abbandonato questo mondo per sempre, lasciando un vuoto incolmabile. Per fortuna rimane la sua musica e fra tutti i suoi capolavori Bitches Brew occupa un posto di straordinaria importanza. Ascoltarlo a distanza di ½ secolo significa rinascere a ogni ascolto. Eh sì, Birth of the Cool!