Se c’è un personaggio della canzone italiana che credo di aver trascurato parecchio, questi è proprio Angelo Branduardi. Non ci sono motivi particolari, sono i casi della vita… Perciò ho letto e riletto questo agile volumetto autobiografico, con la curiosità di chi scopre molti aspetti sconosciuti di una persona che conosce da molto tempo. Già il titolo mi è sembrato intrigante: Confessioni di un malandrino (è intitolato così uno dei suoi primi successi) dice molto delle modalità scelte per raccontarsi da parte di un tipo piuttosto riservato. Tuttavia, una volta presa la decisione, è un diluvio di storie e di ricordi. Così Fabio Zuffanti, il giornalista che ha raccolto le sue confessioni, forse affascinato dal talento del narratore insieme umile e straripante, si è concesso il lusso di fare il semplice sbobinatore. Ed ecco riemergere il trovatore, il favoliere, il musico e il poeta.

Personalmente ricordo i giorni in cui frequentavo lo studio dell’amico Mario ConvertinoUn grande artista», dice Branduardi, «venuto a mancare troppo presto»). Erano gli anni d’oro del vinile e della grafica al servizio della musica e ammiravo il suo impegno nel realizzare il lavoro per La pulce d’acqua: un’immagine per ogni canzone. Il che suggeriva un immediato richiamo alla tradizione dei cantastorie popolari, qualcosa di emblematico per la produzione del primo Branduardi (quella che comprendeva anche hit come Alla fiera dell’Est e Cogli la prima mela).

Scoprire la sua infanzia genovese e l’innamoramento del violino spinge a una riflessione sulle diversissime origini di 2 protagonisti dei vicoli dell’angiporto: Fabrizio De André, giovane rampollo della buona borghesia e frequentatore delle ragazze di vita di via del Campo; e Angelo Branduardi, di famiglia proletaria, che in quei luoghi abitava da ragazzino ed era stato adottato dalle stesse ragazze come il “piccolo principe” alle sue prime esibizioni. Alcuni anni dopo il suo violino troverà un ruolo significativo nella Buona Novella di Fabrizio, come in Samarcanda di Roberto Vecchioni. Ma gli incontri con personalità importanti della musica sono una costante nella sua carriera: da Ennio Morricone a Paul Buckmaster, da Alan Stivell e Richard Galliano, da Jorma Kaukonen a Franco Battiato.

Nel raccontare i difficili esordi e l’avventuroso percorso verso il successo, Branduardi parla di tutti gli altri colleghi, noti o meno noti, con ingenuo entusiasmo, dando quasi l’impressione di sopravvalutare quello che ha ricevuto in dono piuttosto che quello che lui stesso ha saputo dare. Forse è proprio un aspetto del suo carattere, lo stesso che lo spingeva a preferire il clima raccolto dei teatri al clamore degli stadi. Ed è stato proprio in un clima raccolto, con una scenografia scura e minimalista, che ricordo di aver apprezzato il Branduardi maturo che interpretava le poesie del grande irlandese William Butler Yeats (1865-1939), tradotte dalla moglie Luisa e da lui musicate. Questa maturità, che lo ha spinto a una ricerca più complessa e problematica, lo ha visto alternare buone riuscite con prodotti meno felici, entusiasmanti scoperte con momenti di profonda insoddisfazione.

Nella parte finale delle sue confessioni, c’è spazio anche per la coraggiosa e appassionata esplorazione nella musica antica e nella spiritualità. Ma ancora più coraggioso è forse il racconto del «sole oscuro», come Angelo chiama la crisi depressiva che, dopo alcuni “preludi”, lo ha colto proprio nel tempo della pandemìa. Un male che spesso è in agguato nella vita di un artista; un male difficile da spiegare, che lo ha portato attraverso giorni bui, ma infine alla risalita nella speranza di un futuro a cui (nonostante tutto) tutti aspiriamo.

Angelo Branduardi con Fabio Zuffanti, Confessioni di un malandrino, Baldini+Castoldi, 192 pagine, € 20