Da parecchio tempo, ormai, la musica israeliana non è più un oggetto misterioso. Si può ben dire che con il nuovo millennio anche nel jazz sono affiorate numerose personalità: il pianista Yonathan Avishai (classe 1977) ne è un esempio significativo e da alcuni anni appartiene alla prestigiosa scuderia della ECM. Il suo raffinato tocco classicheggiante non nasconde le più importanti influenze jazzistiche (da Thelonious Monk a Bill Evans), ma c’è in lui anche un’indiscutibile originalità e una curiosità a tutto campo. In particolare nell’ultimo album, Joys And Solitudes, si rivelano i frutti di una ricerca appassionata su ogni forma di popular music (popular, non pop, ovviamente); ricerca condivisa dai 2 fedelissimi del suo Trio: Yoni Zelnik (double bass) e Donald Kontomanou (batteria).

Il 1° brano è l’unico non composto da Avishai: si tratta di un pezzo di storia, Mood Indigo di Duke Ellington, rivisitato con una suggestiva riflessione sulla stessa materia sonora ellingtoniana e su quegli indimenticabili colori esotici. Song For Anny è invece una dolce ballata sentimentale che si muove, tuttavia, evolvendosi su tempi diversi. Tango, personalissima immersione nella danza argentina, sorprende per come così pochi e rarefatti accordi, spesso dissonanti, riescano a rendere i ritmi e il clima di quella tradizione.

Joy è uno dei pezzi più elettrizzanti per inventiva e immediatezza, con momenti di mirabile dialogo fra mano destra e mano sinistra. Shir Boker è un tema lento e meditativo con echi della tradizione hiddish, che forse è presente anche in Lya, frammento di vita limpido e delizioso con toni da girotondo infantile. Il 7° brano di oltre 12 minuti, When Things Fall Apart, ha movenze da vera e propria suite, con numerosi cambi di scena e uno sviluppo che rivela molto del pianismo lirico e rarefatto di Avishai, dove a volte idea compositiva e improvvisazione sembrano un tutt’uno.

L’ultimo pezzo, Les Pianos De Brazzaville, è uno strano omaggio all’Africa e alle sue ossessioni ritmiche. Immagino che tra i jazzofili di casa nostra ce ne saranno parecchi pronti ad obbiettare: “Ma qui c’è poco swing!”. A costoro consiglio di ascoltare più di una volta proprio quest’ultima composizione, che definisco “strano omaggio”: non capita spesso che un pianista così incline al raccoglimento possa penetrare a fondo nel festoso, caotico clima della tradizione africana.

Infine, mi azzardo ad affermare che la perfezione dei suoni ECM comunque non basta: assistere a un concerto di Avishai è un’esperienza diversa. Io ho potuto vederne 2: con il Trio e quello, più recente, da solo. E ho potuto godere anche la sua sorprendente seppur controllata gestualità minimalista: qualcosa di straordinario per un personaggio gentile e riservato, certo senza l’appeal di una star ma capace di dare un senso al più leggero movimento della mano, giusto per sfiorare un tasto.

Yonathan Avishai Trio, Joys And Solitudes, (ECM)