“Sulla copertina la band indossava pantaloni a strisce a zampa d’elefante e camicie dai colori sgargianti. Avevano pettinature afro ed erano un gruppo multirazziale […] Time Has Come Today era espressiva, ricca di sentimento e zeppa di sapori rock: feedback, eco in quantità, chitarra heavy e un testo moderno, al passo con i tempi. Era adatta al momento: ‘La mia anima è stata psichedelizzata!’ ”.
Così Carlos Santana, nell’autobiografia The Universal Tone, descrive e ricorda la canzone simbolo dei Chambers Brothers, pubblicata 2 volte come singolo ma soprattutto indimenticabile e lunghissimo epilogo dell’album The Time Has Come, 1° Lp di studio del quintetto statunitense che la Columbia distribuì ai negozi nel novembre 1967. L’avrete probabilmente ascoltata in qualche film, al cinema o in tv. Magari in Coming Home (Tornando a casa) di Hal Ashby, pellicola datata 1978 e premiata con 3 Oscar, in cui il regista di Harold e Maude, L’ultima corvé e Oltre il giardino utilizzava magistralmente e per intero i suoi 11 minuti e 6 secondi di durata in una delle sequenze chiave del lungometraggio: il ritorno dal Vietnam del traumatizzato capitano dei Marines, Bruce Dern, la sua scoperta di una relazione fra la moglie Jane Fonda, infermiera volontaria a un ospedale per reduci, e Jon Voight, ex soldato paraplegico convertito al pacifismo. Oppure in Vittime di guerra di Brian De Palma (altro dramma ambientato durante il conflitto nel Sud Est asiatico), in The Doors di Oliver Stone, in Crooklyn e in Come fratelli del recidivo Spike Lee, in Ragazze interrotte di James Mangold, in Zodiac di Alexander Bulkley o nel recente The Holdovers – Lezioni di vita di Alexander Payne del 2023.
The Chambers Brothers
Assieme a Fortunate Son dei Creedence Clearwater Revival, a Volunteers dei Jefferson Airplane, a For What It’s Worth dei Buffalo Springfield e a Get Together degli Youngbloods, è diventato 1 brano quasi imprescindibile quando Hollywood decide di raccontare il Vietnam, i suoi shock emotivi e l’America a cavallo tra la fine degli anni 60 e i primi 70. Del resto, Time Has Come Today incapsula perfettamente quel tempo e quel luogo. L’energia, la ribellione, il caos, le tensioni razziali, l’impulso urgente di vivere intensamente il presente, il desiderio di sovvertire le regole e di mettere in discussione il sistema. La prima uscita a 45 giri si rivelò un flop, la seconda fece molto meglio sfiorando la Top Ten negli Stati Uniti. Ma i tagli brutali di quegli edit ridotti a 3 o 4 minuti non rendono giustizia a un mastodontico, incalzante e feroce capolavoro di psychedelic soul che va assunto in un’unica dose, ingoiato in un’unica sorsata. L’effetto è frastornante: un mix potente di presa di coscienza sociopolitica e di trip lisergico. Un po’ come tornare indietro nel tempo e assistere in acido a un comizio politico delle Pantere Nere (per quanto i Chambers Brothers fossero meno radicali e legati piuttosto al movimento dei diritti civili di Martin Luther King).
Quante volte pronunciano quasi minacciosamente e in un vortice di echi la parola time, scandendola con il tic toc ossessivo di 2 campanacci, mentre il pezzo rallenta fino a quasi fermarsi per poi riprendere la sua corsa impetuosa? Il cuore del brano è un rock soul baldanzoso e incazzoso, la parte centrale (che ruba anche alcune battute al famoso standard natalizio The Little Drummer Boy) una giungla intricata come quella vietnamita; un sogno/incubo lisergico stravolto dal phasing, dal feedback, dal fuzz e dalla distorsione delle chitarre, da un basso tonante, dal drumming trascinante, da urla e risate sataniche. Apocalittico e onirico come i Doors di The End e i Led Zeppelin di Whole Lotta Love.
Hippies bianchi cresciuti con la musica del diavolo e figli della controcultura, quelli; mentre i fratelli afroamericani Chambers arrivavano dal gospel e dalle chiese battiste, frequentate con dedizione e assiduità prima e dopo aver lasciato il natìo Mississippi per Los Angeles e intrapreso una carriera nell’ambito della musica profana. Avevano annusato la direzione del vento, sposato i nuovi ideali pacifisti, ingaggiato 1 bianco (l’energico Brian Keenan) alla batteria, alzato le manopole degli amplificatori e il volume degli strumenti elettrici che, a differenza di molti gruppi gospel loro contemporanei, maneggiavano personalmente e con una certa abilità. George, il fratello maggiore e iniziatore del gruppo che nel 1967 aveva già 36 anni, suonava il basso elettrico; Lester, che si cimentava anche con le percussioni, aveva imparato i segreti dell’armonica da un maestro d’eccezione, il leggendario bluesman Sonny Terry, mentre i vivaci dialoghi fra la chitarra ritmica di Willie e la solista di Joe evocavano (sia pure con meno virtuosismo) quelli fra Mike Bloomfield ed Elvin Bishop nella Butterfield Blues Band. Grazie al suo timbro graffiante e poderoso, Joe – che dei Chambers era il più giovane con i suoi 25 anni – assumeva spesso anche il ruolo di cantante solista.
Masticavano di tutto, dopo essersi allenati a lungo in palestre come il famoso club Ash Grove di Los Angeles: il soul di Memphis e quello di Chicago; il blues elettrico della Windy City; il pop del Brill Building newyorkese e il funk psichedelico di cui furono pionieri insieme a Sly & The Family Stone. L’album The Time Has Come aveva quanto serviva a far drizzare le orecchie alle stazioni radio FM, underground e a un pubblico interrazziale (arrivò infatti al N°4 della classifica di Billboard come in quella di Cash Box). E come usava allora, era anche e soprattutto un contenitore di singoli. In formato 7 pollici a 45 giri erano già stati offerti al pubblico vigorosi scampoli di rhythm and blues come la scattante All Strung Out Over You (pezzo firmato da Rudy Clark che divenne una hit a livello regionale); la tambureggiante I Can’t Stand It; un’altrettanto dinamica Uptown, scritta dalla futura moglie di Miles Davis, Betty Mabry, con un arrangiamento fiatistico in odore di James Brown. People Get Ready, proposta in una versione ancora più lenta dell’originale degli Impressions di Curtis Mayfield, aveva invece già intitolato il loro 1° album dal vivo su etichetta Vault.
Direttamente dalle charts del 1965, i Chambers Brothers avevano pescato anche altri 2 jolly : What The World Needs Now Is Love, il gioiello pop di Burt Bacharach e Hal David portato al successo da Jackie DeShannon, era in sintonìa con gli umori generali del disco grazie al suo messaggio peace and love e ai richiami impliciti alla guerra in Indocina; il classico di Wilson Pickett, In The Midnight Hour, al pari di una dolce ballata fra blues e doo wop dal gusto rétro come Romeo And Juliet, esaltava nella loro rilettura le matrici gospel del gruppo, abile a imbastire travolgenti e ossessivi botta e risposta fra la grintosa voce da shouter di Joe e le soavi armonie dei suoi fratelli replicando la trance mistica delle loro antiche performance nei luoghi di culto.
Un altro intenso slow (So Tired) e la swingante Please Don’t Leave Me, entrambe firmate dalla band, completavano la scaletta dell’Lp prima che dalle sue viscere fuoriuscisse la lava incandescente di Time Has Come Today. Orologi e campane, percussioni e chitarre elettriche annunciavano fragorosamente che il tempo del cambiamento era davvero arrivato: per i fratelli Chambers, per la musica popolare, per l’America e per il mondo intero. Sappiamo poi com’è andata a finire, ma è anche grazie a dischi come questo che è stato bello cullarsi in quel sogno, fin quando è durato.
The Chambers Brothers, The Time Has Come (1967, Columbia)