Da Bologna a Milano corrono meno di duecento chilometri. Duecento chilometri diritti che non finiscono mai. Quella sera avevo fatto tardi a cena con un cliente, ma non mi andava di dormire fuori. Con la rella che girava in quei giorni anche un centone in più faceva spessore. M’infilai quindi in macchina e puntai svogliato l’Autosole.
L’asfalto nero filava via con le ruote dell’automobile. Il suo instancabile tendersi lungo la pianura spenta incantava gli occhi. Mi capitava perciò di sbandare vistosamente. Allora strizzavo le palpebre e menavo colpetti secchi al volante.
L’Alfa rispondeva bene. A quell’ora di notte, tuttavia, l’unico utente dell’autostrada ero io. Neanche uno straccio di camionista incrodato in cabina col mezzo pieno di lucine come il calcinculo del Luna Park. Il mio timore in mezzo al nulla era quello di arrotarmi sulla barriera di protezione.
Sparavo occhiate di continuo sul niente che mi circondava alla ricerca di una luce qualsiasi agganciata nel buio.
Avevo alle spalle una giornata di sole. Di quelle che la bassa regala d’estate, lenta e calda. Più una manciata di clienti, altrettanto caldi e lenti. Trassi un fiatone e accesi gli abbaglianti. La notte si ritrasse di un pezzo. I catarifrangenti a bordo corsia brillavano in due file ordinate. Pareva una pista d’aeroporto.
Viaggiavo nei pressi di Parma e già crollava la testa. Luna e stelle, piantate nel cielo nero, spruzzavano sulla campagna un chiarore senza colore. Volgevo occhiate dappertutto, ma non vedevo che contorni di diverso buio. A tratti spiavo lo specchietto retrovisore sperando nell’arrivo del getto luminoso di due fari. Qualcuno come me, chiuso dentro l’abitacolo, col quale scambiare il lampo di uno sguardo.
Il sonno arrivò. Mi aggredì deciso. Il momento di fermarmi era giunto. Una breve sosta per ricucire due fili di energia. Al primo segnale di parcheggio cessai di lottare col sonno e piegai subito a destra. Impegnai la corsia di emergenza e rallentai entrando nella piazzola di sosta. Prima di fermarmi presso un fitto d’alberi spensi fari e motore. Sollevai i cristalli e bloccai le portiere. Non si sa mai. Reclinai quindi il sedile per distendermi. Risucchiavo l’ultimo sbadiglio tra le ganasce allorchè sopraggiunse una vettura. Mi superò e andò a fermarsi una decina di metri oltre. La luce all’interno era accesa ed ebbi modo di scorgere, insieme al conducente, un secondo passeggero: un tronco corpulento che emergeva dal sedile posteriore. Mi sembrò che avesse un cranio tondo e pelato e sedeva in una posizione diritta, forse tesa.
Fui subito colto da curiosità per cui il sonno arretrò. Presi a osservare i nuovi venuti. Notai che entrambi gesticolavano animatamente nei confronti di qualcuno che sedeva accanto al conducente. Doveva trattarsi di un essere minuto, oppure un individuo semi-sdraiato. Dalla mia posizione, infatti, non scorgevo che una piccola ombra staccarsi a tratti dalla poltrona. Qua e là nel silenzio coglievo vaghi frammenti di un furioso vociare.
I due individui, all’improvviso, si strinsero sul terzo semi-nascosto. Gli furono sopra, quasi volessero coprirlo coi loro corpi. Poi levarono alte le mani e le calarono più volte. Picchiavano. Colpivano duro, ora alternandosi ora colpendo insieme.
Mi si scorciò il fiato. Una portiera si aprì e rovesciò all’esterno una fetta di luce. E con quella scivolò fuori una specie di fagotto. Un involto, che si spalancò al suolo come un materassino da spiaggia. Un materassino animato che si alzò a fatica. Barcollò. Cadde in ginocchio e sorse di nuovo. Quindi stentò alcuni passi nel buio. Puntava nella mia direzione. Una figurina esile. Serrai le mani intorno al volante. Anche gli altri due scesero. Uomini. In un balzo furono sopra la figurina e ripresero a colpire. Udivo i suoni dei pugni. Tonfi sordi che mi facevano male alle orecchie. Poi udii il pianto della figurina al suolo. Un lamento sottile, rotto dalle percosse. Era un pianto femminile. Quei due balordi picchiavano duramente una donna.
Sudavo sotto il naso e alla nuca. Una goccia salata come un’acciuga mi scivolò sulle labbra. La leccai via piano. A quel punto decisi di filare. Però non riuscivo a scollare le mani dal volante, a distogliere gli occhi dal pestaggio, a svegliare alfine il motore.
La donna crollò lunga tirata al suolo. I due si curvarono ad osservarla. Poi si dissero qualcosa di breve e guadagnarono svelti l’auto. Ripartirono a luci spente, quasi senza rumore. L’auto era una BMW di coloro scuro.
Allorché furono scomparsi il meccanismo paralizzante si sbloccò. Accesi il motore e poi gli abbaglianti e poi schizzai fuori precipitandomi sul fagotto contratto al suolo.
Giaceva senza vita. Mi chinai e ne cercai il volto. Aveva lunghissimi capelli scuri. Si trattava proprio di una donna, una giovane donna. Il catrame era tiepido sotto le ginocchia e odorava di gomma bruciata. La trascinai per le braccia nel cono di luce dei miei fari. Le liberai il volto dai capelli e ne scorsi i caratteri. Mi sembrò un bel viso, nonostante i vistosi grumi di sangue intorno alla bocca e agli occhi. Non percepivo il battito del cuore al tocco esterno e le infilai una mano nella camicetta. Il seno era caldo e, di sotto, il cuore batteva. La sollevai tra le braccia, minuta e leggera. Cadeva da ogni parte.
La caricai in macchina posandola sul sedile accanto al mio. Innestai la marcia e me ne andai. Partivo con un carico sconosciuto. Non sapevo dove l’avrei condotta. Un brivido corse dalla nuca all’osso sacro. Mi volsi a guardarla. Pareva dormisse. Chi era? Che cosa me ne sarebbe venuto? Forse avrei fatto meglio a piantarla per terra. Probabilmente si trattava di una puttana.
La ragazza aveva bisogno di un medico. Magari il pronto soccorso di un ospedale, oppure una farmacia notturna in qualche paese dei dintorni. Al casello mi avrebbero dato informazioni precise, così evitavo le mille domande della polizia: insidiose, tendenziose. L’incredulità connaturata, il verbale. E poi i cronisti. Di quelli che stazionano negli ospedali, di notte, alla caccia di squallide notizie di cronaca nera. Di quelli che trasmettono l’accaduto al giornale, che scrivono di regolamento di conti, di droga e prostituzione. Che mi avrebbe estorto il nome, il mio nome di onesto rappresentante.
Un flebile lamento ruppe quella stretta di angoscia che mi cresceva dentro. Le stortai un’occhiata. Pareva riprendere conoscenza. Aveva tanti capelli neri che le cadevano sul volto e odorava di buono.
“ È tutto finito, ora la porto da un medico… “, le sussurrai piano.
“ Mi porti a casa mia, per favore, a Milano! “ .
Fu quasi un urlo.
Tacqui. Riportai gli occhi sulla notte. Mi andava bene così. Niente domande, niente spiegazioni. Lo voleva lei.
Nei minuti che seguirono mi volsi a osservarla un altro paio di volte. Sembrava quasi torpida, gli occhi fermi davanti che non guardavano niente.
L’Autosole morì con la campagna ed entrammo in città. In piazzale Corvetto accostai l’auto al marciapiede. La scossi.
“ Signorina…, dove l’accompagno…? “.
Uscì dal torpore in un sussulto. Passò una mano fine lungo la fronte, poi sussurrò il nome di una strada centrale. Via Spiga. Ci arrivammo in venti minuti. Un palazzotto signorile, elegante.
Il mio incomodo cessava in quel momento. Scesi. Mi affrettai ad aprirle la portiera. Provò a sollevarsi senza il mio aiuto. La lasciai fare. Non appena fu quasi eretta mi crollò pesantemente addosso.
“ Non ce la faccio … “, mormorò.
La sospinsi fino al portoncino reggendola in vita. Alzai gli occhi alle finestre spente. Lei indovinò il mio pensiero.
“ Non si preoccupi, vivo sola… “.
Allora risolsi di accompagnarla fino in casa.
Mi porse una chiave. Entrammo nel palazzo. Montammo in ascensore. Me la sistemai di fronte. Nell’angusto dell’abitacolo i volti, i corpi quasi si sfioravano. La osservai a fondo. I capelli erano davvero lunghissimi. Lisci e neri. Occhi grandi, quasi spenti. Tumefatti entrambi. Sotto il naso le labbra gonfie parevano enormi. Così, a occhio, la ragazza aveva un corpo minuto e armonioso.
Ci fissammo. Quel suo sguardo denso sparì e piantò gli occhi nei miei fino a farmeli cadere. Abitava al quarto piano. Sulla porta una targhetta di lucido ottone con un nome che lessi appena. Mi porse una seconda chiave. Con lei contro il petto mi spinsi all’interno nel buio completo. Allargai una mano sulla parete, ma non trovavo l’interruttore. Allora avanzai ancora con lei addosso. Un passo ancora e rovinai al suolo trascinandomi dietro la ragazza. Imprecai sottovoce. Poi lei, trascinandosi sulle ginocchia mi mostrò la via da seguire. Fui presso una porta. Mi alzai e la prima parete che toccai mi offrì un interruttore. Accesi la luce di un lampadario centrale.
Sudavo. La camicia trasbordava dai pantaloni. Mi indovinai spettinato e sporco. Bestemmiai di nuovo. Lei stava seduta per terra e mi osservava con un difficile sorriso dalle labbra gonfie.
La stanza dove ci trovavamo era la camera da letto. L’afferrai alle ascelle e la scaricai sopra il letto, sopra una coperta tesa come un biliardo. Sedetti in costa. Trassi un lungo fiato e mi guardai attorno. Tanti mobili che mi parvero antichi. Giù a terra un tappetone ocra grande quanto la stanza. Si capiva che era un luogo ricco. Quadri e stampe alle pareti. E poi le tende, gonfie, contro un’ampia porta finestra. Infine libri ovunque. Forse una giornalista, una scrittrice. Mi chiesi cosa mai potesse avere in comune con gli energumeni dell’Autosole. Probabile che fosse una puttana, una puttana colta.
La guardai. Aveva un volto giovane e dolce, tranne il particolare delle tumefazioni. Indossava pantaloni blu di tessuto aderente e una camicetta bianca. Le mossi i capelli dal volto. Decisi di pulirla e disinfettarla. E poi filarmela. Un panno bianco lo scovai in bagno, tutto di ceramica blu, fino al soffitto, la vasca incassata nel pavimento. Colmai una brocca d’acqua e la raggiunsi. Strofinai il panno bagnato sulla pelle del viso. I grumi di sangue si sciolsero. Ora andava meglio. Così, chinato sopra di lei, presi a spogliarla. Le tolsi la camicetta. Un’operazione piuttosto laboriosa. Quelle tettine piccole e stagne tornarono a pungermi gli occhi. Le sfilai i pantaloni, piano, per non svegliarla.
Aprì gli occhi in quella e mi scorse lì, incantato sopra il suo corpo. Mi guardò. Anch’io la guardai. Non c’era invito, né malizia nei suoi, ma qualcosa di più. Qualcosa che cercava di guardarmi dentro. Quel suo sguardo mi disturbò. Si permetteva forse di valutarmi, di giudicarmi? Non era proprio nella posizione di farlo, magari era soltanto una bella puttana.
Rapido e goffo la infilai sotto le coperte. Sorrise appena.
“ Come ti chiami? “.
“ Michele “.
“ Io Maddalena…, è vero che adesso non te ne vai? “
Era tutt’occhi accesi.
“ Rimango ancora un po’ “.
Sorrise piano. Si stirò leggermente. E parve riaddormentarsi.
C’erano mille pensieri che mi urgevano dentro la testa. Dentro quel letto dormiva un mondo sconosciuto. Un mondo che aveva di certo legami con i due ceffi dell’autosole. I quali avrebbero potuto capitare lì a chiedermi che cazzo ci facevo in quella casa. Schizzai fuori come un topo. Filai all’auto. Domani sarei di nuovo uscito in trincea a vendere i miei prodotti.
Fui dentro casa in meno di mezz’ora. Mollai il campionario e mi stravaccai sul letto.
Saltai a sedere. Gocciolavo come un rubinetto spannato. La finestra buia mi disse che non era ancora giorno. Il silenzio della stanza vuota mi schiacciò giù di nuovo. Ripresi un sonno agitato. Mi svegliai di colpo. Mi sembrò di aver dormito un paio di minuti. Guardai la finestra. Il sole entrava fioco a impolverare il pavimento.
Barcollai in cucina. Nel lavello c’erano i piatti sporchi di una settimana e un tanfo di cibo rancido. Guardai l’orologio: le otto. Mi preparai. Raccolsi il campionario e uscii. Nel mio bar c’era parecchia gente che beveva il primo caffè del mattino. Il proprietario serviva al banco. Gli urlai un buongiorno strozzato. Neanche una smagliatura. Buttai giù un caffè che più schifoso di così era difficile e tagliai la corda.
Trascorsi l’intera giornata sprofondato tra i clienti. In mezzo a tanta gente non mi ero mai sentito più solo di così. Mi congedai dall’ultimo cliente che era quasi l’ora di cena. Non avevo fame. Mi sentivo scazzato mica male.
Transitai per il centro. Parcheggiai in piazza Cavour e infilai la via Spiga. Camminavo lentamente e guardavo i piani alti delle case, le finestre accese. Fui sotto il suo palazzo. Cercai la targhetta con quel nome che avevo appena intravisto. Pensai al da farsi, ma già l’indice, per conto suo, premeva quel pulsante. Osservai la punta dell’unghia imbiancarsi. Mi prese lo spaghetto. Forse aveva qualcuno in casa. Provai il fottuto impulso di fuggire. Troppo tardi.
“ Pronto… “.
Era la vocina flebile che avevo già sentito.
“ Mi chiedevo come stessi… “, esordii fioco.
“ Sali, ti aspettavo… “.
Si fece di lato senza aprire bocca. La fissità del suo guardo mi imbarazzava di brutto. Cominciavo a temere che fosse un po’ sbullonata.
“ Ho avuto paura che fossi rientrato nel buio di quell’autostrada, che fossi un fantasma della mia immaginazione, o del mio desiderio… invece sei vero … “.
Sorrise. Parlava bene. Mi piaceva. Stava già meglio. Indossava una specie di kimono multicolore. Era uno degli articoli più fini del mio campionario.
“ Va meglio, mi pare… “.
“ Sì, sto meglio. Però sono rotta. Da ieri sera non ho fatto che dormire… e pensare a te… “.
Mi afferrò una mano e mi condusse in soggiorno. Volle che sedessi sopra un divanetto verde e venne giù anche lei, a stringermisi contro.
“ Michele… “.
La guardai. Mi piacque che mi chiamasse col mio nome.
“ Michele, ti piaccio…? “.
“ Mah…, veramente…, ti conosco solo da qualche ora… “.
“ Io, invece, ti amo. Non so chi sei, conosco appena il tuo nome, ma sento di amarti. Del resto non mi importa nulla “.
Mi sentii stralunato, incredulo, forse spaventato.
“ Tu, però, vuoi sapere di me, di ieri…, prima di decidere se ti piaccio, vero? “.
Quello che cos’era? Un colpo di fulmine? Che cos’è un colpo di fulmine? Cominciai seriamente a pensare che fosse una povera pazza. Cercai di inventare qualche parola lì per lì.
“ Io…”.
“ Ora ti dico tutto. Ed è ben poco. Dio, quante poche parole servono per descrivere un tormento di mesi! “.
Scivolò una mano lieve lungo la fronte, quel gesto che le avevo già visto fare. Poi la stessa mano strinse la mia. Mi raccontò del padre, molto ricco, che l’amava. Della madre morta. Raccontò dell’appartamento che il padre le aveva regalato e le mille altre cose che le aveva regalato. Poi, d’un tratto, la voce le s’incrinò:
“ Qualche tempo fa, per farla breve, provai la polvere con certi amici…, con certi che dicevano di essermi tanto amici. Da allora non ho fatto che stare con quegli amici e il mondo era sempre più lontano e mio padre sempre più prodigo. Non capiva, lui! Credeva solo nei regali. Un mattino fui molto vicina ad andarmene. Stavo male da morire. Inaspettatamente giunse mio padre. Mi guardò e capì tutto in un lampo. Scorsi passare nei suoi occhi prima l’incredulità, poi il dolore. Infine la disperazione. Dio che mazzata! Decisi di svezzarmi. Così, brutalmente. Finora, in qualche modo, ho resistito, ma ho paura, ho paura di ricadere. Finché sono arrivati gli amici a chiedermi ragione della mia scomparsa. E mi hanno portato fuori, a prendere una boccata d’aria…, in quel posto sull’Autosole dove ho incontrato te … “.
Non piangeva, la voce era ferma. Tuttavia la sentivo rannicchiata contro di me, tesa e indifesa. Mi buttò gli occhi in faccia, improvvisamente.
“ Tu sei il mio destino, sono sicura che tu sei il mio destino. Lo so, è folle! È irrazionale! Tutto quello che vuoi, ma io lo sento nel profondo. Non sono pazza, Michele! “.
Mi baciò. Risposi al suo bacio. Mi convincevo sempre di più che ero in presenza di una povera squinternata. Pensavo che, forse, era meglio non contraddirla al momento.
“ Se tu stai con me, forse ce la faccio “.
“ Forse, se sto con te, magari ce la faccio anch’io “.
Ce la faccio anch’io, avevo bofonchiato come un disco spannato. Ma ce la faccio a fare che cosa?

Fra i romanzi di Sergio Cioncolini pubblicati da Pendragon ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018) e Danni Collaterali (2019)