Questa è la miglior storia di gatti e cani che mi ha visto partecipare in qualità di testimone, alla quale, tuttavia, avrei volentieri fatto mancare la mia presenza. E per la stupidità umana e per il danno arrecato a due innocenti animali. Vengo subito al fatto. Lo chiamavano Smith il taciturno perché era un soriano tozzo di poca cera che amava starsene per conto proprio. Poteva esser sui quattro, cinque anni. Era il gatto dell’oste all’angolo. All’angolo di una via della Porta Venezia, a Milano. Panfilo Castaldi è il nome. Un nome piuttosto noto per via delle battone e dei papponi che ne erano la primaria fauna stanziale. Anch’io abitavo lì, al primo piano di una casa proprio davanti all’osteria della signora Mariuccia.
Torniamo al gatto. Il nome Smith seguito dall’aggettivo taciturno gli veniva dal titolo di un film molto in voga qualche anno addietro. Era un maschio robusto dagli occhi grandi e gialli. Silenzioso. Mai che lo abbia udito miagolare. Di carezze ne accettava soltanto una: lieve, sopra la zucca tonda e dura. Poi, se insistevi, sgambettava altrove. Era l’orgoglio della signora Mariuccia, alla quale dedicava, di tanto in tanto, qualche strusciatina sulle gambe. Anche suo marito, il signor Giovanni, non faceva che lodarlo.
La popolarità di cui godeva in zona, il gattone se l’era guadagnata sul campo come cacciatore di topi. L’ho visto con questi occhi, più volte, catturare e stecchire certe pantegane di fogna grosse quanto lui. Un balzo e un morso. Un colpo solo e sempre sotto la nuca, in modo da paralizzare il nemico lasciandolo tuttavia ancora in vita.
Quell’estate capitava che la sera, subito dopo cena, un pelo prima del buio, uscissero dalle fogne attraverso i tombini certi enormi toponi in cerca di cibo. Smith questo dettaglio lo conosceva bene e ogni sera, dopo il tramonto, si acquattava sul marciapiede sopra il tombino e là aspettava che il ratto affamato uscisse allo scoperto. Allorché ne percepiva l’approssimarsi strisciava un poco indietro per non farsi sentire dal naso della preda. Si appiattiva quindi al suolo. Laggiù schiacciato come una bistecca aspettava nella più completa immobilità, gli orecchi assorbiti dentro la testa, le vibrisse mosse da un impercettibile fremito. E gli occhi, enormi e gialli, incatenati all’uscita del tombino. Lasciava che l’ombra bagnata del ratto uscisse del tutto dal buco quindi gli balzava addosso. Il suo intento era quello di azzannarlo un pelo sotto la nuca dove passano i nervi spinali del movimento. Non é che lui s’intendesse di anatomia, chiariamo, è soltanto il luogo dove molti felini amano colpire le vittime. Però non sempre gli riusciva al primo colpo. Allora era un avvinghiarsi violentissimo e breve, un sovrapporsi di urli da stremire chiunque. Misuravano l’intera strada per quanto era larga, allacciandosi e staccandosi, a tratti volando nell’aria sempre avvinghiati. Finché Smith colpiva giusto, di denti, dietro la nuca. Si trattava di un morso secco e preciso. Dopo di che il ratto cessava di correre, di saltare. Si spostava, invece, sul terreno con estrema lentezza, quasi trascinandosi. Smith si allontanava subito di un paio di metri, controllando però i faticati movimenti del ratto con i suoi occhioni gialli, nei quali non c’era ferocia o cattiveria, delle quali erano colmi quelli del ratto, ma una determinazione senza cedimenti. A volte sembrava addirittura dimenticarsene e guardava altrove. Salvo artigliarlo con una zampata e trascinarlo oltre se quello faceva tanto di rasentare il buco del tombino per scarligarsene al coperto. A quel punto si stancava. Se lo caricava tra le mascelle e andava a depositarlo sulla porta dell’osteria. Dove il marito della signora Mariuccia lo riempiva di elogi davanti alla clientela.
C’era il macellaio, il signor Franco, che aveva un bel dobermann dal pelo raso, lucido e nero. Di tanto in tanto veniva all’osteria a farsi qualche mano a ramino e portava con sé il suo cane. Il quale, alla vista di Smith sul marciapiede prendeva a mugolare, a sbavare dalla bocca semi-aperta. Smith lo ignorava totalmente, come in genere fanno i felini in presenza di un potenziale pericolo. Il suo comportamento, apparentemente di sufficienza, dava sui nervi al signor Franco. Per farla breve, una triste sera, il signor Franco prese a sfottere e motteggiare il povero Smith quasi fosse una persona. Fingeva, a tratti, di aizzargli contro il suo dobermann. Il marito della signora Mariuccia gli raccomandava la prudenza.
“Non si sa mai coi gatti …”, gli diceva forse un po’ beffardo, “meglio la prudenza … ”.
Il signor Franco ribatteva inviperito che il suo cane avrebbe fatto polpette di quel gattaccio randagio. E via così, in crescendo, fino a beccarsi come due tacchini incazzati. Paonazzo in faccia come un ciucco tradito il signor Franco scatarrò che avrebbe persino scommesso dei soldi sulla superiorità del suo cane rispetto al bastardo dell’osteria. A quelle parole il marito della Mariuccia non ci vide più e accettò la scommessa dei soldi. Nel frattempo gli avventori dell’osteria avevano mollato le carte sui tavoli e partecipavano alle scommesse. Puntavano i soldi sui due animali, allungavano le braccia verso di loro. Il dobermann appariva già eccitato e puntava il gatto ansimando forte. Smith, da parte sua, intuì l’imminente pericolo e trotterellò all’interno del locale. Il cane balzò con violenza in avanti tirandosi dietro guinzaglio e padrone. Smith schizzò nel cortile interno del palazzo. E già l’occhio giallo aveva perso luminosità. Appariva ora cupo e la coda gli si era trasformata in uno spazzolino del cesso. Il dobermann gli fu alla coda e Smith gli si rivoltò contro una prima volta. Sollevò una zampa con gli artigli protrusi e soffiò fuori il suo avvertimento. Quindi fuggì di nuovo e andò a piazzarsi in fondo al cortile, davanti all’ingresso di un corridoio cieco che conduceva a un deposito di mobili.
Il dobermann corse laggiù col suo padrone faticosamente al rimorchio. Sul retro dell’osteria comparve la signora Mariuccia che strillò al macellaio di tornare indietro perché laggiù, in fondo al budello cieco, c’era una porta chiusa e il gatto non aveva una via di fuga e si sarebbe infuriato come una belva. Nessuno le diede retta. Gli uomini urlavano eccitati, il signor Franco anche. E fu allora che commise una grande bestialità. Aizzò il dobermann che balzò contro Smith. Il guinzaglio fuggì dalle mani del signor Franco e il suo cane s’infilò di corsa dietro il gatto che era già scomparso all’interno del corridoio buio.
A questo punto si potè soltanto immaginare quanto accadde in fondo al cieco budello. Il dobermann sarebbe riuscito ad afferrare tre le zanne il povero Smith. Il quale sarebbe riuscito a divincolarsi e avrebbe scoperto di essere in trappola. Allora, incurvato il groppone, drizzato il pelo sulla coda e lungo tutto il dorso avrebbe cacciato fuori tutte le unghie che possedeva e soffiando come un mantice avrebbe preso a saltare lungo le pareti fin su al soffitto. Dal quale sarebbe poi disceso a misurarsi col dobermann. Fermi in circolo nel cortile tutti gli astanti non udirono altro che urla terrificanti. Infine un’ombra arruffata poco più chiara del buio schizzò all’esterno. Era Smith, gli occhi gialli lustri come lampadine. Guardò la gente in circolo per un lungo secondo. Pareva uno sguardo offeso, tradito. Infine, storto e zoppicante s’infilò nell’osteria e via fuori sulla strada e via senza fermarsi fino a scomparire.
Gli occhi di tutti, allora, si puntarono sul cieco budello dal quale giungevano alti guaiti del cane. Il signor Franco si precipitò all’interno. Poi se ne uscirono, lui e il dobermann quasi abbracciati. Nel buio nessuno riusciva a discernere con chiarezza. Entrarono nell’osteria. A quel punto tutto fu chiaro a tutti. Il cane aveva il muso sporco di sangue. Entrambi gli occhi non erano che orbite vuote, senza più luce.
Anch’io stavo là. Ero uscito di casa per assistere agli eventi. Mi montò in testa un’incazzatura che avrei preso a bastonate il macellaio e l’oste, unici colpevoli di quello scempio.
“È soltanto colpa vostra …”, dissi loro, “…soltanto colpa vostra, brutti stronzi!”.
Il dobermann fu affidato a un canile comunale dove lo eliminarono. Di Smith non si seppe più nulla. Il macellaio e l’oste sono diventati buoni amici. Giocano a ramino tutti i giorni.

Fra i romanzi di Sergio Cioncolini pubblicati da Pendragon ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018) e Danni Collaterali (2019)