Uno fra i grandi della musica brasiliana post bossa nova, ma anche il grande reietto fra i tropicalisti. Tom Zé, anima candida classe 1936 nata a Irarà, profondo interior dello stato di Bahia, è musico che non ha avuto i riscontri di Caetano Veloso e di Gilberto Gil, le cui canzoni hanno fatto il giro del Brasile prima e del mondo poi – bensì per tutti i suoi decenni di attività egli è rimasto una figura di culto che spesso è stato sull’orlo dell’indigenza e che, altrettanto, non ha avuto il credito da parte di una discografia, quella verdeoro, che con lui è stata evidentemente cieca (un solo album negli anni 80, per esempio). Uno così, però, non poteva cadere nel dimenticatoio – e, infatti, benedetto sia quel dì che David Byrne, ancora nei Talking Heads, tutto preso a presentare il suo film True Stories (1986) al Festival Internazionale del Cinema di Rio de Janeiro, in un momento di relax, dentro un negozio di dischi incappò in Estudando O Samba (1976), uno dei grandi capolavori di Zé: ad attrarlo fu la copertina, che in contrasto alla parola “samba” non presentava donne color cannella in bikini iper succinti. E il resto, come si dice, è storia: Byrne resta folgorato e del baiano diviene praticamente mecenate, facendolo divenire l’artista di punta della sua personale etichetta, la Luaka Bop, che con la Real World di Peter Gabriel si è imposta fra il meglio della discografia a carattere, perdonate l’estrema e volgare ghetto-sintesi, world music degli ultimi decenni (sebbene non vadano mai scordate le meno trendy e più antiche venerande Arhoolie, Nonesuch, Shanachie, Rykodisc e World Circuit).

Siccome il percorso di Tom Zé è tutto fuorché lineare, la sua prima biografia chi poteva scriverla e in quale lingua poteva essere redatta? Naturalmente un italiano, nella lingua di Dante Alighieri. Costui è Pietro Scaramuzzopaisà da tempo trasferitosi a Lisbona, già titolare del portale di musica/cultura brasiliana Nabocadopovo (“nella bocca delle persone”) e della rubrica Tropicália nelle colonne del periodico Musica Jazz. E il lavoro di Scaramuzzo è oltre l’encomiabile: L’ultimo tropicalista, nelle proprie oltre 300 pagine, vanta una ricerca storiografica di prim’ordine (complice anche Tom Zé in persona, peraltro), una perfetta esposizione giornalistica, una discografia in appendice certosina e (rarità nella stampa musicale italiana spesso di grana grossa) non un refuso che sia uno lungo tutta l’appassionante lettura. Chapéu, come si dice nella lingua del sommo scrittore mineiro Guimarães Rosa.

Nel libro troverete tutto ciò che riguarda Tom Zé, al secolo Antônio José Santana Martins: gli intensi rapporti con i suoi colleghi tropicalisti Os Mutantes, Gal Costa (sezione gossip: non sapevamo che Gal e Tom ebbero un filarino…), i già citati Veloso e Gil, fino alla riscoperta internazionale grazie a fratello di spirito Byrne ma pure la collaborazione con i post-rocker americani Tortoise; la descrizione certosina di tutti i suoi album; la tenerezza del “rito di passaggio” dalla per lo più agreste Bahia alla concrete jungle San Paolo; l’iniziale successo di fine anni 60 e l’abisso del dimenticatoio-girone incompresi; il talento di inventore di strumenti musicali alla stregua di un Harry Partch (ma pure di un Tom Waits) della landa dell’ordem e progreso; la rinascita e la rivincita che comunque il niveo Tom non pare aver mai cercato. Senza scordare il chiaro approccio filosofico del musicista – vi basti che: «Non siamo altro che automi programmati per lavorare. Quello che ci salva sono i piccoli difetti di fabbrica: cantare, sognare, pensare», come ebbe a dire al tempo del disco Com Defeito de Fabricação (1998).

Senza voler togliere il piacere (assoluto) della lettura de L’ultimo tropicalista, arricchito anche da una bella prefazione di David Byrne, è proprio Pietro Scaramuzzo a dare una spiegazione assolutamente calzante dell’autore di album imperdibili come Todos Os Olhos (1973), The Hips Of Tradition (1992), fino all’ultimo ed eccellente Sem Você Não A (2017): «D’altra parte, Tom Zé è consapevole di non avere le doti che deve avere un cantante. Non possiede né la grazia dei bossanovisti, né la potenza vocale dei crooner che affollavano le frequenze della Rádio Nacional. Gli mancano il fascino immortale di Adoniran Barbosa, l’autore di Saudosa maloca, uno dei brani che Tom più ama, e la poetica raffinata di Tom Jobim e Vinícius De Moraes. Quello che invece possiede è la capacità di mettere a punto una strategia che gli consente, con certezza quasi matematica, di rendere uniche le proprie composizioni. Una strategia capace di catturare l’attenzione dell’ascoltatore grazie a quello che lui stesso definisce accordo tacito. L’idea è illuminante. Nel retrobottega dell’Alvorada, studia punto per punto la strategia partendo dalle proprie lacune e lavorando per difetto. Non è un poeta, né possiede gli strumenti che gli consentirebbero di cantare gloriose avventure passate, come invece avviene nella maggior parte dei brani in voga ai suoi esordi. Quello che gli riesce bene è descrivere il proprio tempo». E da lì Tom Zé, lentamente e senza fretta, partì alla conquista del mondo con la sua angolare, aritmetica, apparentemente dissonante e frenetica-ma-flemmatica musica.

Pietro Scaramuzzo, Tom Zé – L’ultimo tropicalista, add editore, 336 pagine, € 18

Foto: Tom Zé al Sesc Belezinho di San Paolo, gennaio 2018, © Cico Casartelli