Condivido, ci mancherebbe altro, i peana intonati a suo tempo per il loro blitz nell’Eurodisco con l’album N° 1 In Heaven (complice Giorgio Moroder) e per il classical/art pop di Lil’Beethoven. Ma da sparksiano quale io sono da sempre, fedele ai fratelli Ron e Russell Mael, ribadisco che il loro periodo da incorniciare è il biennio 1974-1975, frutto del successo (di nicchia, preziosissimo) ottenuto nel Regno Unito dal singolo Girl From Germany e dall’Lp A Woofer In Tweeter’s Clothing.

Gli Sparks, che si definiscono “anglofili ” per amor degli Who, dei Pink Floyd di Syd Barrett, dei Kinks e dei Move, nel 1973 si trasferiscono da Los Angeles a Londra, identificano il loro nuovo manager in John Hewlett (bassista di quei John’s Children dove militava Marc Bolan, poi leader dei T. Rex), firmano un contratto discografico con la Island Records e pubblicano sulla rivista Melody Maker il seguente annuncio: “Cercasi bassista per gli Sparks. Dovrà essere senza barba ed eccitante ”. Risponde senza indugi all’appello Martin Gordon da Ipswich, che si unisce al chitarrista Adrian Fisher (nativo di Dulwich) e al batterista NormanDinkyDiamond (originario di Aldershot).

Il 1° maggio 1974 esce Kimono My House (con tanto di This Town Ain’t Big Enough For Both Of Us destinato all’immortalità), seguito l’11 novembre da Propaganda e nell’ottobre del 1975 da Indiscreet, prodotto da Tony Visconti già artefice del successo dei T. Rex e di David Bowie. Bastano questi 3 dischi, ai Mael Brothers, per compiere il più inaspettato dei miracoli: tramutarsi da normali californiani in aristocratici mitteleuropei per dare a chi, come il sottoscritto, s’è preso la briga d’ascoltare brani come Amateur Hour, Here In Heaven, Thank God It’s Not Christmas, Bon Voyage, Never Turn Your Back On Mother Earth, Under The Table With Her e Hospitality On Parade, la sensazione di trovarsi d’emblée a Parigi, a Vienna, nella Repubblica di Weimar

Russell e Ron Mael

A ½ secolo dalla mitica trilogia, Ron (77 anni e baffi acconciati comme d’habitude) e Russell (74 e voce “farinelliana ” altrettanto comme d’habitude) ritornano a casa Island con il 26° album in carriera – FFS con i Franz Ferdinand (2015) e Annette (2021), colonna sonora dell’omonimo film, inclusi nel conteggio – che annichilisce i peraltro riusciti Hippopotamus (2017) e A Steady Drip, Drip, Drip (2020) entrando insieme a Kimono My House, Propaganda, Indiscreet, Introducing Sparks, N° 1 In Heaven, Gratuitous Sax & Senseless Violins, Plagiarism e Li’l Beethoven nella (a mio giudizio) ristretta cerchia delle loro incisioni più belle.

Se in Numerologia il significato di 26 è la capacità di raggiungere risultati che dureranno nel tempo, la realtà del canzoniere di The Girl Is Crying In Her Latte mi dice che gli Sparks lo stanno mirabilmente facendo dal punto di vista anagrafico; ma in quanto a varietà di musiche, suoni, giochi di parole e trame sul filo del paradosso riescono addirittura a superarsi con rinnovata ispirazione e ben salda autorevolezza.

A dimostrarlo è il ritmo concentrico e martellante della title track, con l’elettronica che a un certo punto viene “scalfita ” dal rigore degli archi; è la sfrontatezza di Veronica Lake, sorta di Tubular Bells post-industrial con quel non so che (ma in modalità “soft ”) di Suicide; è il rock bello tosto di Nothing Is As Good As They Say It Is, come da tempo (azzardiamo dall’album Big Beat, 1976?) i Mael non architettavano; è il technopop cantilenante di Elevator, ripetitivo con dolcezza, con quell’ocarina che se la gioca ad armi pari col sintetizzatore.

The Mona Lisa’s Packing, Leaving Late Tonight e Not That Well-Defined sono invece imperiose, trionfanti composizioni ben supportate dai fiati, dagli archi e dalle percussioni, mentre You Were Meant To Me è a tutti gli effetti un piccolo capolavoro che indietreggia all’estetismo glamour di Propaganda e Indiscreet. I fasti di quell’electropop sinfonico/cameristico che decretò 21 anni orsono la grandezza di Lil’Beethoven, trovano invece la loro nuova ragion d’essere in 3 brani: We Go Dancing, Take Me For A Ride e It’s Sunny Today.

Da qui alla fine, fatta eccezione per A Love Story che intorbida eccome le acque (mi sarei aspettato come da titolo un profluvio di svenevoli romanticherie; e invece a guadagnarsi la scena è una techno dai contorni acidi e ossessivi) sono 3 le modalità di intendere, decodificare e sublimare la melodia: When You Leave, ballad che avvolge e concupisce; It Doesn’t Have To Be That Way, che definire “beatlesiana ” è tutt’altro che azzardato; Gee, That Was Fun che magari, d’ora in poi, mi piacerà citare come la My Way degli Sparks.

P.S. Per non farsi mancare proprio nulla, nella versione giapponese di The Girl Is Crying In Her Latte c’è una bonus track, s’intitola This Is Not The World I Signed Up For ed è il miglior compendio possibile dell’eclettismo sparksiano.