I 41 anni trascorsi da quel tragico 8 dicembre 1980 in cui Mark David Chapman freddò John Lennon a New York con 4 colpi di pistola, ci hanno prevedibilmente riservato tanti (forse troppi) tributi alla sua arte e alle sue canzoni. Ma questo omaggio concepito e registrato da un quartetto italiano parte subito con il piede giusto evitando le scelte più scontate: “santini” come Imagine e Happy Xmas (War Is Over) logorati, fraintesi e banalizzati da una valanga di superficiali intrattenitori televisivi e di caramellosi spot pubblicitari.

Alex Gariazzo, chitarrista e cantante della Treves Blues Band che suona anche banjo, mandolino, percussioni e altro ancora; Marco “Benz” Gentile degli Africa Unite (harmony vocals, violino, viola, violoncello, bouzouki, percussioni, whistle); Michele Guaglio (basso e harmony vocals) e Roberto Bongianino (fisarmonica, bouzouki, chitarra acustica e mandolino) scelgono, con un piccolo aiuto dei loro amici, una strada diversa trasportando il repertorio di Lennon, solista e con i Beatles, in una dimensione più roots, tra blues e folk transatlantico, consona alla loro strumentazione e alle loro inclinazioni musicali. Ci sarebbe il rischio di qualche forzatura e il gioco potrebbe mostrare presto la corda, non fosse che il loro Smallable Ensemble è un combo versatile capace di giocare bene le sue carte sfoderando anche eccellenti performance vocali, asso nella manica di un progetto cui hanno partecipato (dall’altra parte dell’oceano) colleghi legati alla scuderia Appaloosa, che dalla provincia di Monza e della Brianza volge spesso e volentieri lo sguardo verso gli States.

Ecco dunque Jono Manson, newyorkese trapiantato a Santa Fe e di casa in Italia, mettere la sua chitarra elettrica e la sua voce al servizio di Crippled Inside (da Imagine), ancora più countreggiante dell’originale tra umori cajun e western swing; mentre Patricia Vonne, che il New York Times ha definito “donna rinascimentale di Austin” (anche se è nata a San Antonio), duetta vocalmente a distanza con Gariazzo in una placida All I’ve Got To Do capace di restituire, in una soleggiata atmosfera sudista, la fragranza e l’ingenuità dei primi Beatles che nel 1963 seguivano le orme della Motown e di Smokey Robinson & The Miracles.

È Doug Seegers, country man dalla vita romanzesca e diventato inopinatamente famoso a 64 anni grazie alla partecipazione a un programma televisivo svedese, a prendere in mano le redini in una bella e rispettosa versione di Girl (Lennon al top del suo malinconico romanticismo), mentre l’hippie giramondo Bocephus King, altro assiduo frequentatore del nostro Paese, contribuisce con voce, synth e percussioni assortite a una eterea Beautiful Boy (da Double Fantasy) che spicca subito fra le cose migliori in scaletta. Eppure lo Smallable Ensemble potrebbe fare anche a meno dei loro featuring, come dimostra in una splendida Rain dove i colori accecanti della psichedelìa anni 60 si diluiscono e diventano più sfumati: ne potrebbe andare fiero un altro beatlesiano di ferro come Robyn Hitchcock, alla cui sensibilità sembra avvicinarsi anche una She Said She Said convenientemente acidula e insaporita nel finale da un indovinato arrangiamento di voci che si inseguono in loop.

In un disco dall’equilibrato tessuto elettroacustico in cui chitarre, violino e fisarmonica conquistano spesso uno spazio importante, si apprezza sempre il senso della misura e la disciplina del quartetto (talvolta assistito dalla batteria e dalle percussioni di Alessio Sanfilippo), attento a non sottrarre mai alle canzoni il ruolo centrale da protagonista: l’Ensemble se la gioca con bella disinvoltura fra monumenti come Norwegian Wood, risolta in una squillante danza folk; o Instant Karma, rallentata e bluesata senza rinunciare a un certo sapore rurale. E sa irrobustire quanto basta il ritmo dell’aspra Cold Turkey per trasformarla in un torrido boogie rock alla Canned Heat.

La palma dell’arrangiamento più originale spetta però a Julia, l’accorata dedica di Lennon alla madre e a un’infanzia mai vissuta che i 4 lasciano sospesa a mezz’aria facendo galleggiare delicatamente le voci su avvolgenti note di bordone; e a una Oh My Love strumentale che chiude l’album in un clima sommesso e crepuscolare. È un epilogo in punta di piedi: quasi una preghiera sotto voce, come quelle che tanti fan scossi dalla notizia della morte di Lennon recitarono fra sé e sé quella tarda sera invernale del 1980.