Sulle buie, sconnesse, fangose strade che a cavallo fra i 60s e i 70s componevano il sistema viario britannico, si muovevano senza sosta centinaia di rock band di belle speranze. Tra loro gli Affinity, un promettente quintetto prog jazz che aveva preso il nome da un album del 1962 dell’Oscar Peterson Trio e che, stipato in un vecchio Ford Transit color grigio chiaro, portava la sua musica ovunque ci fosse un ingaggio capace di nutrire i suoi sogni di gloria oltre che il corpo con qualche birra e un pasto caldo.

Erano 1 ragazza e 4 tipi con le barbe incolte, i capelli lunghi e i basettoni extra large, felici di poter vivere della loro passione dopo che una session radiofonica per la BBC aveva destato l’interesse di Ronnie Scott, il leggendario sassofonista jazz che nel 1969 si era proposto loro come manager assicurandogli esibizioni regolari nel celebre club di Soho che tuttora porta il suo nome. La loro fu un’ascesa meteorica, una promessa bruciata sul nascere che oggi ci riporta alla memoria un eccellente cofanetto di 4 Cd con tutto il materiale registrato dal gruppo: dalle origini come trio jazz nato nel 1965 per iniziativa di 3 studenti della University of Sussex a Brighton, alle ultime incisioni effettuate nel 1971-72 (con una formazione rimaneggiata) in vista di un 2° Lp che per decenni rimase sepolto negli archivi della casa discografica.

Affinity

Ad aprire la scaletta è invece quell’unico, splendido album che nel 1970 arrivò negli scaffali dei negozi con in copertina un suggestivo e malinconico scatto di Marcus Keef, specialista in spettrali ritratti femminili in esterni come quelli che adornavano Valentyne Suite dei Colosseum e il 1° album dei Black Sabbath: entrambi ben più famosi compagni di scuderia presso la Vertigo, l’etichetta underground dall’inconfondibile logo a spirale che la Philips aveva da poco lanciato per venire incontro ai gusti del pubblico giovane e “alternativo” e per cui incidevano anche Juicy Lucy, Uriah Heep, Nucleus, Patto, Beggars Opera, Gentle Giant e il 1° Rod Stewart.

Un altro giovane talento in ascesa, John Anthony, che proprio in quel periodo si faceva un nome lavorando a fianco di Genesis e Van der Graaf Generator, si occupò della produzione. Ma qui si viaggiava su binari decisamente diversi: ascolti I Am And So Are You – il pezzo iniziale firmato da Alan Hull dei Lindisfarne e arricchito da un arrangiamento fiatistico curato da John Paul Jones dei Led Zeppelin – e ci trovi lo stesso groove dei Colosseum o della Graham Bond Organisation; l’odore fumoso, umidiccio e un po’ stantìo di un club r&b da ore piccole proiettato in una nuova ed eccitante dimensione dall’agilità della sezione ritmica (Grant Serpell alla batteria, Mo Foster al basso e al contrabbasso), da un bruciante assolo di chitarra elettrica e dalla voce duttile e magnetica di Linda Hoyle, coautrice con il chitarrista Mike Jopp di una Night Flight in cui dimostra di non avere nulla da invidiare a Julie Driscoll.

L’incipit etereo e notturno, esotico e sognante, sfocia in riff incisivi, scattanti e decisamente rock trascinati dalla sei corde distorta e dai fraseggi d’Hammond B3 di Lynton Naiff, faro strumentale della band che nel disco suona anche pianoforte, Wurlitzer, clavicembalo, vibrafono e percussioni. È un esempio immacolato e scintillante di quella musica libera e lontana dai format che si faceva allora, quando senza preclusioni si vagava tra generi diversi in cerca di strade inesplorate e le canzoni cambiavano più volte ritmo, pelle e fisionomia dilatando la lunghezza oltre i classici 3 minuti della pop song.

Lynton e Linda sono gli autori di Three Sisters, un altro trascinante soul jazz fiatistico che si apre volentieri alle jam e alle improvvisazioni, ma per il resto del programma gli Affinity si affidavano a cover di natura e provenienza eterogenea: rielaboravano il pop melodico fine anni 50 degli Everly Brothers (I Wonder If I Care As Much) chiedendo nuovamente aiuto a Jones per confezionare un arrangiamento drammatico e orchestrale da giovani crooner; arpeggiavano delicatamente con chitarra acustica, organo e flauto tra le morbide pieghe melodiche di Coconut Grove dei Lovin’ Spoonful e trasformavano Mr. Joy della tastierista jazz/avant garde Annette Peacock in 5 minuti di sinuosa eleganza sul filo di una tensione latente, gli strumenti in crescendo e la voce ammaliante di Linda pronta a sfoderare tutta la sua sensualità e una notevole estensione.

Il climax arrivava nel gran finale, con il pezzo più noto in repertorio: una All Along The Watchtower da 11 minuti e ½ che guardava a Jimi Hendrix più che a Bob Dylan, e che veniva rielaborata secondo i moduli classici del jazz utilizzando il tema melodico come piattaforma di lancio per sfrenate esplorazioni funk jazz e irresistibili assoli di tastiera.

Pieces Of Me, l’Lp solista di Linda Hoyle stampato nel 1971 in 300 copie, è fra gli album più rari della Vertigo

Che ci sapessero fare con i pezzi altrui lo dimostrano anche le bonus tracks incluse nel box: il folk pop di Hull (United States Of Mind) e il jazz swingante di Mose Allison (If You Live); il cantautorato americano di Laura Nyro (Eli’s Coming è abbastanza fedele all’originale) e di Carole King (una Long Voyage di cui si sono perse le tracce); i Beatles di una I Am The Walrus più sincopata e meno acida e lo Stevie Wonder di una convulsa You Met Your Match; mentre le ultime incisioni senza Hoyle e Naiff, sostituiti rispettivamente da Vivienne McAuliffe e da Dave Watts (già a fianco del cantante r&b afroamericano Geno Washington) mostrano una band in equilibrio precario appena prima che Jopp, Foster e Serpell decidano di alzare bandiera bianca accettando di accompagnare Mike D’Abo, l’ex cantante dei Manfred Mann, in un tour americano (Linda Hoyle, intanto, pubblicherà nel 1971 il bell’album solista Pieces Of Me e nel 2015 tornerà sorprendentemente sulla scena con The Fetch).

Grandi lodi della critica e dei media, scarso successo commerciale. Per gli Affinity vale la solita, vecchia storia: finirono anche loro “vittime della vita on the road”, come raccontava la conduttrice radiotelevisiva Annie Nightingale in un bel servizio d’epoca trasmesso dalla BBC, dopo che il loro Ford Transit aveva purtroppo imboccato una strada senza uscita.