“Basta! Non ce la faccio!“, si strillò dentro con un urlo assordante. “Non ce la faccio più!”, si ripetè.
Tale pensiero gli esplose nella mente con tale veemenza che l’espressione del volto tradì l’emozione. Infatti si accorse che la Clerici lo stava fissando dalla sua scrivania. Riprese subito la solita maschera che là dentro tutti conoscevano e continuò a spuntare le pratiche che aveva davanti.
Per il resto della mattinata Bruno non tornò sull’amara constatazione di qualche ora prima, salvo ripensarci di sfuggita durante l’intervallo, mentre si recava alla solita trattoria lungo le solite strade.
Lungo il percorso si sorprese a salutare i colleghi quasi con astio. Tutti con le solite facce e le solite bocche che si ripetevano le banalità di ogni giorno.
“C’è stato un casino da fare, stamattina, vero?“. E l’altro: “ Corro a casa. Non ci vedo dalla fame”, e un terzo alle spalle: “Mia moglie oggi ha preparato gli spaghetti alla carbonara. Li sa fare alla grande!“.
Per lui gli spaghetti alla carbonara non li preparava nessuno in modo speciale. Se li voleva, bastava che li ordinasse in trattoria e, dopo qualche minuto, eccoli lì davanti. Belli e fumanti e scadenti.
Il pomeriggio corse via veloce e nessuno venne a distoglierlo dai suoi pensieri grigi. Riusciva a lavorare con un’applicazione minima. Faceva quel lavoro da tre anni, sempre quello. Da tre anni, due mesi e quattro giorni, per la precisione.
Di tanto in tanto riemergeva dalle scartoffie e spiava i colleghi. Tutti, al solito, si facevano in quattro per compiacere i superiori i quali, il mattino dopo, faticavano a riconoscerli per strada.
Erano ammirevoli i colleghi, pensava onestamente Bruno. Si guadagnavano la pagnotta ingoiando soprusi, umiliazioni, un lavoro snervante e tedioso. Alla sera rincasavano stanchi e avviliti, magari pure incazzati. Ma ecco che avveniva il miracolo: il saluto festoso dei figli, il sorriso della moglie e il ritrovarsi in un ambiente amico dove sentirsi amati, credersi magari uno che vale, li consolava delle amarezze accumulate durante il giorno.
E quella signorina Clerici che gli sedeva davanti nell’ufficio oltre la vetrata? Un tipo un po’ strano. Ogni volta che i loro sguardi s’incontravano attraverso il vetro abbassava gli occhi con un certo impaccio. Che avesse un debole per lui? Pensò che era improbabile perché non le aveva mai mostrato con sorrisi o altre gentilezze alcun particolare interesse. Era carina, tuttavia. Aveva una bella figurina armoniosa, come si dice, e nell’insieme, trasmetteva l’impressione di tanta dolcezza. Il suo viso era fresco e pulito e gli occhi azzurri splendevano dietro gli occhiali. Era davvero carina. Curioso che se ne accorgesse soltanto ora. Si trattava, oltretutto, di una ragazza in gamba. Prendeva il suo lavoro di segretaria con serietà e cercava di aiutare un po’ tutti al bisogno.
L’ora di smontare arrivò. Bruno raccolse le sue scartoffie e le scaricò in fondo alla scrivania come ogni sera. Si mosse per andarsene.
“Signor Marini…?“.
Bruno si volse piano.
“Mi scusi se la trattengo un attimo…, vorrei domandarle una cosa…“.
La guardò muto. Aspettava.
“Il Cral ha organizzato una gita a Portofino per fine mese e io dovrei raccogliere le adesioni…, lei verrà, vero…? “.
Un lieve tremore nella voce tradì l’imbarazzo.
“La ringrazio…, ma a fine mese non so nemmeno dove sarò“, sbottò lui d’impulso, imbarazzato del pari.
“Lei non partecipa mai alle nostre gite… “, riprese la ragazza. “Potrebbe farsi vedere al Cral qualche volta, facciamo tante cose…“.
Si era fatta rossa in volto.
“Lasci perdere, signorina. Sono cose che non fanno per me!“, rispose secco Bruno. Che si volse e abbandonò la scrivania. Prese d’infilata il corridoio fino all’ascensore. Dove si volse e la vide ancora là. Immobile col suo foglio di carta in mano.
Uscì sul marciapiede. Piovigginava. Era senza ombrello. Filava rasente i muri. Raggiunse l’auto e s’infilò dentro. Innestò la prima e schizzò via tirando le marce, chissà perché. Appuntamenti non ne aveva. Alcuni colleghi lo guardarono fuggire. Anche la signorina Clerici, ancora sul portone dell’azienda, lo seguì con una lunga occhiata.
“Al diavolo tutti!“, masticò tra i denti.
Giunto al parcheggio sottocasa infilò l’auto nel primo buco a pochi metri dal portone. Salì, ancora chiedendosi quale premura lo muovesse. Schiavò e fu dentro casa. S’appoggiò alla porta e guardò fisso davanti a sé. Poi mormorò, il volto girato come parlasse a qualcuno che gli stava accanto:
“Eccomi qua, ancora solo, come ieri, come un mese fa. Non è mai entrata una donna in questa casa di merda!”.
Tolse la giacca e la buttò sopra una sedia. La sedia cadde. C’era da scommetterci che non avrebbe retto l’urto della giacca. Corse al frigorifero e ne tolse la solita bottiglia di Jack Daniels. Ne ingollò subito un sorso. E subito tossì dentro una mezza bestemmia. Girò intorno al tavolo del suo monolocale. Altri giri disponibili in quel buco non ce n’erano. Tornò al frigorifero, il Jack Daniels sempre nella destra. Dopo una breve occhiata fece la sua scelta. Afferrò una scatoletta di Simmenthal e richiuse il frigorifero. Altre scelte possibili non ce n’erano. Posò bottiglia e scatoletta sul tavolo. Sbottonò la camicia e prese a girare intorno al tavolo. Guardava le sue cose: lo striminzito arredamento che si era portato via dalla vecchia casa dei genitori dopo la loro morte.
Tornò a sedere. Aprì la scatoletta e sforchettò fuori il contenuto in meno di un minuto. Bevve un altro sorso di Jack Daniels. Prese a sudare. Sfilò la camicia e la lasciò cadere al suolo. Tossì di nuovo. Osservò la bottiglia. Era mezza vuota.
“Adesso me la finisco“, scatarrò.
Si alzò. Entrò nella piccola cucina. Lavò una moka e la riempì di caffè. Pose la moka sul fuoco e aprì il rubinetto del gas. Filò al tavolo e tracannò un lungo sorso di whisky. La testa cominciò a girare in tondo. Sudava.
“Adesso mi butto un momento sul letto“, disse.
Inciampò un paio di volte e raggiunse il letto, nella destra la bottiglia di Jack Daniels. Si buttò seduto e bevve un altro generoso sorso. Si calò sdraiato. Gli venne in gola un conato. Si alzò seduto. Ruttò con violenza e lo stomaco si tranquillizzò. Abbandonò la bottiglia al suolo e si sdraiò di nuovo.
L’effetto dell’alcol si faceva sempre più sensibile. Aveva tanto caldo e la testa gli girava di brutto. Tuttavia non era una sensazione sgradevole quella che provava. Si sentiva anche leggero. Stirò le membra e chiuse gli occhi. Subito un turbine di pensieri gli si affollò nella mente. Avvenimenti antichi e recenti, volti noti e sconosciuti gli sfilavano davanti come in un cinema. Si addormentò e sognò.
Una casa, anzi un solo appartamento, volteggiava dentro un cielo tanto azzurro da non poterlo quasi guardare. Una vecchia casa, apparentemente, dalla quale si era staccato. Muri scrostati, balconi slabbrati, scale buie, una corte enorme sulla quale pendevano ringhiere divelte, panni distesi un po’ dovunque ad asciugare. Al quinto piano un bambino correva lungo la ringhiera che stava per rovinare sul fondo di una profondissima ringhiera. Un uomo in tuta saliva lentamente le scale. Pareva affaticato. Giunto al quinto piano vide il bambino che correva avanti e indietro sulla ringhiera che stava precipitando nel baratro. C’era un’ombra che avanzava all’inizio della ringhiera. Veniva dal fondo, dalla buia tromba delle scale. Il bambino la osservò. C’era qualcosa di familiare nel suo incedere e Bruno si ritrovò adulto a guardare quella figura amica che gli andava incontro sulla ringhiera pericolante. Poi gli fu accanto. La riconobbe.
“Papà, sei tu!“.
Le forti mani del padre gli si attanagliarono alla gola e strinsero forte, sempre più forte.
“Non devi morire figliolo. Vivi. La vita può anche essere bella!”.
“Papà, ma tu mi uccidi!“.
Bruno rantolava. Non respirava quasi più.
“Vivi, figlio! La vita può anche essere bella!“.
Bruno si sentiva gli occhi schizzare via dalle orbite. Si dibatteva come un forsennato.
Suo padre stringeva sempre più. Fingendo di ucciderlo nel sogno mortale che il giovane stava vivendo, in realtà lo salvava cercando di svegliarlo.
Di colpo Bruno si svegliò. L’incubo svanì immediatamente. Si trovò al suolo, ai piedi del letto fradicio di sudore. Il pavimento era imbrattato di vomito. Gli mancava terribilmente l’aria. Un nuovo conato di vomito gli scappò fuori dalla gola. Un sibilo gli entrò nelle orecchie, come il linguaggio di un serpente. Di scatto volse lo sguardo al fornello di cucina. Veniva di là quel sibilo.
Rammentò di avere aperto l’interruttore, ma non ricordò di avere acceso il gas.
Un prorompente bisogno di vita s’impossessò di tutto il suo essere. Trovò la forza di alzarsi. Barcollò malamente alla finestra. Le forze stavano per abbandonarlo. Cadde. Annaspò nel vuoto. La mani incontrarono qualcosa. Era la tenda che resse il suo strappo. Afferrò la maniglia della finestra e tirò con le ultime forze che gli rimanevano in corpo.
Un soffio d’aria tiepida che sapeva di primavera lo investì in pieno volto. Cercò subito di inspirare profondamente, ma i polmoni non volevano contrarsi. Poi, lentamente si mossero e l’aria rifluì in quel povero petto e con essa la vita.
Rimase aggrappato alla finestra per un tempo indefinibile. Ora il gas poteva continuare e defluire. L’avrebbe chiuso tra alcuni minuti. Guardò il cielo, la strada di sotto, gente che camminava, parlava, rideva, automobili che filavano via, tante finestre accese.
Rientrò. Spense il gas. Andò in bagno. Fece una lunga doccia calda. Si rivestì. Decise di uscire a fare due passi tra la gente. Si scoprì a ripensarla, la signorina Clerici, mentre usciva tra la gente. Carina. Pulita. Ordinata. Che avesse un debole per lui? L’aveva quasi capito. Decise di andare a fondo. Per prima cosa avrebbe accettato quell’invito della gita a Portofino.
“Poi, si vedrà…“.
Fra i romanzi di Sergio Cioncolini pubblicati da Pendragon ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018) e Danni Collaterali (2019)