Pochi libri come questo dimostrano la lontananza fra il ‘900 e l’800. Anzi, a voler essere forse più precisi, fra la civiltà umana e la civiltà tecnologica. Ovvio che la letteratura novecentesca non può essere inquadrata in un’unica categoria, ma se consideriamo il 20° come il secolo dell’accelerazione (quello che ha messo in pratica i dettami Futuristi ponendo le basi in certi aspetti profetici, come in Blade Runner, del post umano) non possiamo non vedere quale abisso ci sia con uno dei più importanti romanzi della storia: La montagna incantata di Thomas Mann. Lo scrittore tedesco ha vissuto a cavallo tra i 2 secoli ma, in buona sostanza, è sempre rimasto un uomo del 19° secolo; e la vicenda della Montagna incantata, pur essendo ambientata nel 1° decennio del ‘900, è come se si riferisse ancora al secolo precedente.

Come abbastanza tipico di molta letteratura ottocentesca, da Alessandro Manzoni a Fëdor Dostoevskij, questo è un libro che parte dalle idee e non da una storia da raccontare. Infatti la trama è esilissima: il giovane Hans Castorp si reca a trovare il cugino presso un sanatorio a Davos, in Svizzera. Quello che doveva essere un soggiorno di 3 settimane si trasforma, a causa della malattia contratta in quel luogo, in un soggiorno di 7 anni. Considerato che tutto si svolge in uno spazio ben delimitato, cioè il sanatorio e la vallata intorno alla quale il protagonista compie, (soprattutto all’inizio del romanzo) lunghe passeggiate, si comprende che una vera e propria storia non c’è. In questo, Thomas Mann è in sintonia con un altro grande romanzo decadente privo di storia come À Rebours (Controcorrente) di Joris-Karl Huysmans, con la differenza che il francese si concentra sulla descrizione degli oggetti mentre Mann si focalizza sulla mentalità degli individui e in particolare sulla loro dialettica.

Proprio per questo motivo, alcuni dei personaggi “rappresentano” concetti: la cosa è piuttosto evidente quando si parla del responsabile medico, il Dott. Behrens, o dell’italiano Settembrini. Il primo possiede tutta la superbia che doveva caratterizzare il luminare tedesco in quanto “possessore” della scienza (anche se talvolta traspare un senso di impotenza scientifica: non dimentichiamoci che siamo in un tubercolosario e che all’epoca da quella malattia il più delle volte non si guariva). Strettamente collegato a Behrens è uno degli episodi più caratteristici: la descrizione della lastra ai polmoni di  Castorp. Se da un lato ci dimostra quanto si sia progrediti da quelle prime macchine rudimentali, dall’altro evidenzia la sottile inquietudine di un uomo ottocentesco quale è Thomas Mann al cospetto delle nuove tecnologie; e tale inquietudine traspare dalle lunghissime riflessioni del protagonista sulla vita, dove il nozionismo medico positivista si scontra con il senso della vita in sé, sul suo perché.

Ma per quanto Mann non venga considerato autore decadente in senso stretto, anche in quest’opera c’è un senso voluttuoso della morte che troviamo in parecchia cultura tedesca – da Dürer a Klimt, fino a Roth – e a dimostrarlo è uno dei più tristi carnevali mai descritti in letteratura: quello che coincide con l’anno trascorso da Castorp in sanatorio. E nel contesto della festa, forse la più triste dichiarazione amorosa che mai si sia letta: quella del protagonista a Claudia Chauchat la quale, a sua volta, viene descritta come un’immagine già cadaverica.

L’italiano Settembrini è il pensiero logico e razionale. Per buona parte del romanzo i suoi ragionamenti con Castorp e il cugino appaiono piuttosto incontrastati. D’altronde Settembrini è assai più colto: sta lavorando, in solitudine, a un’enciclopedia intitolata Sociologia della sofferenza e il suo progetto, da buon progressista ottocentesco, è contribuire all’estirpazione della sofferenza. Forse per dargli un alter ego, a metà del romanzo, Thomas Mann inventa la figura del cattolico Naphta, intriso di pensiero tomistico e abilissimo a porre in rilievo le contraddizioni del razionalismo puro.

È chiaro che nello scontro di idee trovino spazio lunghe disquisizioni: ad esempio sulle piante medicinali dei tropici (il chinino in particolare) come esclusivo pretesto per poter affermare che sappiamo il “come” (ovvero l’agire) ma non il “perché” delle cose e dunque dell’esistenza. In quest’ambito dialettico possiamo includere la cervellotica dichiarazione d’amore di Castorp per Claudia; le elucubrazioni sul ruolo dello scrittore e le divagazioni sulla natura dell’amore, nell’uomo e nella donna, in quel “pensatore” che appare quasi al termine del romanzo, Mynheer Peperkron, incentrate sulla “passività” femminile; così come pagine su pagine dedicate al grammofono con le dotte disquisizioni sul bel canto, l’Aida, Debussy (la cui opera viene citata in parafrasi) e la Carmen di Bizet.

Quando poi entra in scena la medium danese Elly Brand, nelle sedute spiritiche, nelle reazioni e nei giudizi dei personaggi rintracciamo sia la spiegazione materialista dei fenomeni paranormali tipica dell’800 positivista che pur non credendo ad alcuna entità spirituale credeva però negli spiriti, sia l’atteggiamento possibilista di Castorp dietro cui c’è lo stesso Thomas Mann, individuo che si colloca a metà fra la concretezza del secolo precedente e i dubbi e le incertezze di quello nuovo. Non è solo una montagna. È anche un mondo incantato, oggi inconcepibile. Poi sopraggiunge la prima guerra mondiale e quel mondo finisce.

Thomas Mann, La montagna incantata, Casa Editrice Corbaccio, 704 pagine, € 20