Dell’arte non sopportava lo snobismo e la presunta inaccessibilità. Nell’arte, Philippe Daverio ci era entrato con fare sornione e il sorriso sulle labbra, incorniciati da papillons e gilets d’altri tempi. Fra i suoi innumerevoli programmi televisivi, Art.tu e i tavoli rotondi era “il” viaggio alla scoperta delle grandi e piccole istituzioni museali gestito con spiegazioni semplici, amabili chiacchiere da caffè letterario, aneddoti e curiosità. Alsaziano nativo di Mulhouse e italiano per caso, Daverio aveva un cruccio: risultare antipatico per via della sua non completa dimestichezza con la nostra lingua. E in un’intervista mi aveva spiegato: «L’ho imparata a diciott’anni e oltretutto all’Università Bocconi di Milano: quindi nella maniera più illogica. Prima era un suono che a malapena riuscivo a tradurre in parole, ascoltato a Varese ogni volta che ci andavo a trascorrere le vacanze con la famiglia. La mia lingua madre è l’allemanico, cioè il dialetto alsaziano, mentre la lingua dei miei studi è il francese. In poche parole, mi considero un franco-crucco che è diventato italiano».

Uno scorcio di Basilea

Radici ben salde in terra d’Alsazia, quindi.
«Direi nell’Europa di Re Lotario che va da Milano ad Aquisgrana comprendendo la Digione di Carlo il Temerario, Bruges e Basilea, che ritengo sia la città più bella in assoluto. Ogni volta che la visito e mi affaccio sul Reno, ho la sensazione che il vento fresco di Guglielmo Tell mi sfiori la schiena. Poi guardo dinnanzi a me e raggiungo idealmente Rotterdam facendo all’incontrario il viaggio di Erasmo. Basilea ha luoghi mirabili: la piazza del Municipio con il suo romanticissimo edificio, i quartieri lungo il fiume, l’ottocentesco Grand Hotel dei 3 Re e la Fondation Beyeler, con la più alta concentrazione al mondo di arte moderna i n mano ai privati».

Ci torni spesso a Mulhouse?
«Quando succede provo grandi emozioni. Mulhouse non è una cittadina attraente, ma è incredibilmente carica di significati: è stata la prima a separarsi dal Vescovado di Basilea con una propria borghesia e nel ‘400 ha espulso la nobiltà accettando solo la residenza dei borghesi. Ha partecipato alla industrializzazione europea e tuttora ne indossa tracce di affascinante mestizia che si sublimano nel Museo dell’Automobile, in quello del Tessile e negli edifici dell’archeologia industriale in fase di lento recupero. E poi Mulhouse continua a nutrirsi di antica musica per organo, più che in altre zone franco-germaniche, e di strane ironie: basti pensare che la sua via principale, rue du Sauvage, prima della guerra si chiamava Vildermanngasse (Vicolo dell’uomo selvaggio) e nel 1939 venne ribattezzata Hitlerstrasse».

Mulhouse

Quali musei d’Europa vanno assolutamente visitati?
«Mi piace distinguere 2 itinerari: quello dell’alfabetizzazione e quello della curiosità. Il primo, che permette di familiarizzare con i concetti fondamentali dell’arte, non può non includere il Louvre di Parigi, la National Gallery di Londra, il Museo del Prado di Madrid, la Museuminsel di Berlino e gli uffizi di Firenze».

Dopodichè scatta la voglia di approfondire, selezionare, scendere nei dettagli…
«Incuriosirsi, appunto. E la scelta è pressochè illimitata: penso al meraviglioso concentrato d’antico Oriente che è il Musée Kwok-On parigino, alla polvere del Museo Egizio di Torino, alle collezioni pittoriche di Bruges, al Museo della Scienza e della Tecnica di Monaco di Baviera. Consiglio spassionatamente il Musée de la Croix-Rouge di Ginevra, che raccoglie le tessere di tutti i prigionieri di guerra, a partire dalla franco-prussiana. È un brivido totale, la più bella installazione concettuale al mondo. Sono le più piccole istituzioni museali a riservarci le sorprese più inaspettate. Fuori dalla didattica si entra nel piacere puro».