Fra gli autori minori della letteratura italiana del 900 c’è Giuseppe Marotta (1902-1963). Che forse ha scelto di essere tale, vista la sua variegata produzione: dalla narrativa, al teatro fino alla sceneggiatura, senza dimenticare il fatto che egli era essenzialmente un giornalista. Marotta non ha proposto titoli indimenticabili tranne che in un caso, L’oro di Napoli, probabilmente perché nel 1954 ne è stata realizzata una versione cinematografica di Vittorio De Sica. Il libro è uscito nel 1947, ha avuto una seconda vita proprio grazie all’omonimo film ed è stato più volte ristampato.

A rileggerlo oggi, fa emergere tutti i limiti dell’intellettuale napoletano: forse consapevoli, forse dettati da una precisa volontà di mostrarsi “limitato”. La Napoli che ci viene raccontata è quella che precede la seconda guerra mondiale, del tutto diversa rispetto alla devastata città narrata da Curzio Malaparte ne La pelle, forse più simile (ma solo in apparenza) alla Napoli dell’Eduardo di Natale in casa Cupiello e Filumena Marturano, poiché Marotta è lontano dai crucci e dalle problematiche esistenziali del teatro di De Filippo, che parte dalle proprie emozioni per parlare al mondo intero.

Le emozioni autobiografiche di Marotta, invece, rimangono sue; e la Napoli che ci racconta è fatta di bozzetti. Un bozzetto è limitato? Certo. E anche quando si parla di miseria e di fatica di vivere, soprattutto quando egli ricorda la propria infanzia poverissima, quella città è un po’ da cartolina. Ma anche i bozzetti possono essere bellissimi. E anche un’immagine che non corrisponde al vero può lasciare traccia, allo stesso modo, di un realismo violento.

Giuseppe Marotta (1902-1963)

Se osserviamo un dipinto del Canaletto, non siamo portati a pensare che quella Venezia fosse ormai alla fine della sua grande storia, né a supporre cosa ci fosse dietro le facciate dei palazzi dipinti. Ma il non saperlo e il non immaginarlo non ci disturba affatto. Così vale per Giuseppe Marotta. Non credo che la Napoli da lui descritta sia stata esattamente così, anche perché in fin dei conti è una città vagheggiata, filtrata nel ricordo.

Ma anche intuendolo, la lettura ce la fa godere ugualmente: quando ad esempio vengono tratteggiati i personaggi con esiti di grande poesia, come nel racconto La mostra dove al posto di opere d’arte si parla dell’esposizione natalizia del banco di un povero fruttivendolo tisico; o quando, nel racconto Il ragù, Marotta riesce a poetizzare un rito (quello del ragù, appunto) come non so se sia mai riuscito a qualcun altro parlando di cibo.

Esempio illuminante, un episodio che fa parte anche del film: quello in cui è coinvolto Totò. Nella versione cinematografica, per dare modo alla straordinaria capacità del Principe De Curtis di utilizzare il proprio corpo, la figura di Saverio Petrillo viene trasformata in “pazzariello“, cosa che nel libro non viene detta. E nel film non sono chiari (ma lo sono nel libro) gli antefatti della presenza dell’altro personaggio, Carmine Iavarone, nella casa del primo. Tuttavia capiamo che quest’ultimo è un guappo, un camorrista che si è insediato, servito e riverito, in un posto non suo.

Il pensiero corre immediatamente a un caso realmente accaduto, a conferma che la vita imita l’arte: l’insediamento forzoso e violento di Michele Zagaria in una casa di Casapesenna. Il camorrista di Marotta invece, è un individuo che di fronte alla ribellione (dopo anni) di Saverio Petrillo e della sua famiglia, sceglie di andarsene.

Non è facile stabilire quali episodi siano resi meglio nella scrittura o nella riduzione cinematografica, tenendo presente che lo stesso Marotta ha collaborato a quest’ultima e che gli episodi nel film sono minori rispetto a quelli del libro. A parer mio, ad esempio, il Vittorio De Sica giocatore sempre perdente contro il piccolo figlio del portinaio, nella sua essenzialità e nei suoi silenzi risulta migliore rispetto alla prolissa versione originale del testo. Al contrario, l’episodio dedicato a Don Ersilio Miccio venditore di saggezza che fonde 2 racconti distinti, indimenticabile nel film solo per la verve del grande Eduardo ma poco o niente collegato col racconto omonimo, risulta inferiore alla resa sottilmente cupa del protagonista e della corte dei miracoli che lo circonda, rappresentata dai bassi dei Quartieri Spagnoli e dall’umanità che vi brulica.

La rappresentazione dei singoli personaggi e della loro arte di arrangiarsi (da Don Raffaele Caserta che cambia un’infinità di lavori e viene tradito dalla moglie troppo bella; a Bernardo Scuteri che inventa un miracolo per restituire decoro a una cappellina, fino a Don Gennaroil Paglietta” che campa richiedendo certificati per conto altrui) potrebbe sembrare inventata di sana pianta, ma questi personaggi non vanno ritenuti assurdi in una dimensione come quella dei Quartieri Spagnoli d’inizio secolo. Anche perché non siamo lontanissimi, a livello ispirativo, da certi spunti delle commedie eduardiane. Seppure quest’ultimo sia, ovviamente, superiore al pur delizioso narratore di L’oro di Napoli.