Teneva gli occhi chiusi mentre la guardavo. Soltanto le labbra erano socchiuse, per respirare dentro un lieve sibilo. Ma, soprattutto, per parlarmi senza parole nell’incomprensibile linguaggio dell’amore. Le minuscole rughe che le completavano il volto da sveglia, quelle intorno agli occhi intendo, ai fornici delle labbra e altre qua e là per le guance e sulla fronte, non c’erano più. Scomparse dal volto, come spianate dalla completezza del piacere ancora fresco nel ricordo.

Era diventata un’altra donna, tante altre donne che sembrano tutte belle dopo un atto d’amore. Leggevo sul suo volto i caratteri dolci e severi delle divinità elleniche, così come me le ero costruite in mente sui testi scolastici. Ma anche i tratti neri e decisi delle donne del sud o la bellezza terrigna di una puttana nostrana ferma a un cantone di strada. O ancora la pura dolcezza di una madonna del Quattrocento uscita dal genio di un pittore. E insieme il lampo ferrigno di uno sguardo di strega.

In tutti quei volti c’era incarnata quell’espressione estatica comune a tutte le donne del mondo quando finalmente accolgono in grembo quel poco che un uomo riesce talvolta a dar loro di sé. È il momento finale dell’amore. L’amore dei brevissimi istanti che non riesci mai a ricordare compiutamente, ogni volta che cercherai di riviverne la malìa. Ecco, questo è il lascito più vivo, forse, che la donna regala agli uomini. Qualcosa che assomiglia al suo personale profumo quando se ne va e tu non puoi fare altro che tirarlo su per il naso come a volere ancora inspirare, in esso, un’ultima porzione di lei.

L’avevo conosciuta così, senza precedenti che me l’avessero portata a una graduale conoscenza. Qualcosa di simile a un passato che ci accomunava, sul tipo di un’amicizia vissuta insieme. Un improvviso, come nella musica. Ero giovane, allora. Uno sbarbatello proprio senza barba e senza passato che del mondo femminile non conosceva ancora nulla.

Stava a servizio presso una famiglia milanese originaria di quelle parti: Valle Seriana Superiore, comunità montana N. 11. Ogni estate vi ci tornavano a villeggiare. Abitavano in una loro casetta sulla provinciale, appena fuori il paese, a destra, passato il ponte sul fiume Serio. Anche lei era originaria di quelle parti: ” full time colf “, è l’odierna formula della sua prestazione lavorativa in seno alla famiglia. Per lei, più semplicemente, soltanto pane che portava in famiglia ogni fine mese. Composta, la famiglia milanese, di padre, madre e tre figli. Due sulla mia età, il terzo più in là. Però seminarista. I due sulla mia età se ne avvalevano, di straforo, della colf intendo, per loro spontanea dichiarazione in uno di quei momenti che stimolano confidenze tra maschi. Il seminarista non affermava nulla. Ascoltava e basta. Però era di occhio fino.

Aveva un pube largo e forte, rigoglioso come un ciuffo d’erba selvatica. Bianca di carnagione. Tanto che io, dentro di me, l’avevo soprannominata: “ la luna di notte “. Al tocco delle mie mani su di lei, dovunque la toccassi, sentivo che spartiva delicatamente le cosce. Allora scendevo con gli occhi a cercarla da quelle parti. A guardarla ingordo. A immaginare che spartisse le pliche. Carnose e pigre. La pioggia era scivolata a lungo quel pomeriggio sull’erta erbosa: un’acquetta sottile quasi dolce che parrebbe neanche capace di bagnare. Invece no. Te ne accorgi poi, quando ti rialzi e muovi via.

Ogni colpetto dei miei scivolavo di un pelo al’ingiù. Poco, ma sufficiente tuttavia a estromettermi. Lei, allora, mi tirava su prendendomi alle ascelle con le sue grandi mani bianche. Silenziosa. Sospirava soltanto, dolce a suo modo, quasi come una madre col suo bambino che sculetta via. Quel suo gestire sembrava motivato dall’intento di soggiacere a una volontà esterna, una volontà superiore somigliante a un dono ricevuto, più grande di lei. Nonostante che tutto fosse venuto da lei. Che fosse stata lei a invitarmi nel bosco. Inviti ripetuti. Ammiccanti sorrisi di tra le amiche dapprima. Al loro passaggio davanti a me durante la passeggiata delle cinque. Poi aperta e ridente quando ci si incontrava di nuovo in piazzetta. Fermandomi, alfine, a indicarmi sottovoce il luogo dove l’avrei incontrata una certa sera verso il tramonto.

A quel tempo ero sui quindici. Ampiamente sprovvisto, come ho già detto, di esperienza operativa. Nemmeno credevo che venisse all’appuntamento. Venne. Prese subito per un sentiero che montava svelto sull’erta collina. La seguivo, occhi bassi sui sassi per non inciampare. Nessuno dei due parlava. Meglio così. Non avevo niente nella testa. Sentivo soltanto il profumo dei pini, intenso, che montava fino in cima al naso, pizzicandolo.

A una stretta curva del tratturo si fermò di scatto. Diritta, alta più di me. Volse il capo. Poco mancò che le cascassi addosso.

“Oggi non posso“, mormorò.

La guardai, chiedendomi perché mai mi avesse invitato a quella camminata su per i monti.

“Hai capito?“, chiese scoprendo il mio sguardo allocchito.

Scossi il capo. Non avevo capito.

Lei rimase un tantino in forse. Poi, sbrillandosi dappertutto in faccia, se ne uscì a spiegare di certe cose per volontà di natura, di impedimenti che non si degnò nemmeno di chiarire.

“Torniamo indietro, dai…“, disse svelta e prese il passo in discesa quasi urtandomi nel passarmi accanto.

Le fui dietro. Sospirai di sollievo. Ero quasi felice di quel ritorno a valle. Non avevo capito la ragione di quegli impedimenti e tutto mi appariva confuso.

Mi cercò di nuovo un paio di giorni dopo. Accadde tutto nello stesso modo della prima volta. Io, però, mi sentivo quasi allegro. Nel corso della salita nel bosco, tanto per tirarla in quarta e farmi sciolto, accennai distrattamente a quegli impedimenti per cui eravamo dovuti ritornare in paese la volta scorsa.

“Tutto bene“, rispose volgendomi un’occhiata storta al primo volgersi e poi guardandomi in piena faccia. A lungo. Come si guarderebbe un coglione.

Ero intimamente orgoglioso di talune mie prestazioni in solitudine. Un certo panico lo sentivo tuttavia prendermi a tratti. Lei era più vecchia di me, forse sedici. Io però mettevo conto che non fosse inferiore a una di diciotto. Non so, forse il pieno rigoglio del seno. O certo suo rivolgermisi. Materno, tipo.

Più che mutande parevano calzoncini bianchi del tennis. Leggeri. Aderenti. Belli. Trasmettevano quasi un senso di protezione per una ferita aperta sotto tutto quel bianco. Di modo che, in aggiunta alla timidezza, prese a lavorare in me una certa voglia di impaurita delicatezza nel rimuoverli.

Il nostro giacerglisi sopra aveva intiepidito l’umidità dell’erba. Mi carezzava piano, a tratti alzando gli occhi agli alti pini, alle tonde colline a corona del cielo che andava lentamente abbuiandosi.

Sorrideva, lieve. Ma quel sorriso non era per me. L’avevo capito anch’io. Dolce come sorridono le madri. Non ce la feci a nuotare il tutto quel materno mare.

Fra i romanzi di  Sergio Cioncolini pubblicati da Pendragon ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018), Danni collaterali (2019) e Vacanza di sangue (2020).