La vita scendeva bianca dal cielo, forte da non poterla guardare. Solo i verdi occhi degli alberi riuscivano impunemente a fissarla. L’astro Sole non si doleva degli avidi sguardi che si nutrivano della sua luce. Il suo cruccio veniva ora dal palazzo scintillante dal quale era stato bandito. La grande piana dove un tempo l’animale uomo, ultimo nato di madre Terra, e gli altri animali fratelli pascolavano offrendosi con fiducia al suo caldo raggio, si era un giorno ingravidata partorendo rapidamente un orrendo mostro di acciaio e vetro.

Dopo un primo, sospettoso approccio con la Terra il figlio artificiale dell’uomo aveva preso a crescere ricoprendosi di un ferrigno metallo e di verde silice.

L’astro Sole pensava che il mostro, giunto a completa maturazione, sarebbe esploso, oppure marcito, com’è nel ciclo vitale di ogni frutto figlio della Terra. Ma il seme del padre aveva distratto la natura e il prodotto dell’uomo continuò immutabile a offendere il ricordo di madre Terra. Sempre acceso come il freddo occhio del serpente si ergeva simile a un bubbone fradicio nel cuore della grande piana che malamente soggiaceva al suo dominio.

Non un solo raggio dell’astro Sole era in grado di entrare in lui a frugargli l‘anima, né gioire della luce che gli recava. Ogni suo sguardo era filtrato, snaturato ancora prima di potervi accedere all’interno. Dove esseri simili a disgustosi insetti splendenti di una luce verde, generata dal verde silice che ricopriva l’intera costruzione, si affrettavano nei recessi del palazzo, più simile a un formicaio che non uguale a una grande casa sul tipo di quelle costruite dall’uomo in un tempo lontano. Esseri artificiali come la luce che li accecava e il cibo che li avvelenava, condizionati come l’aria che respiravano, del tutto schiavi, asserviti alle macchine, totali dominatrici. Esseri frenetici, incapaci di riposo, cercavano tracce di vita nelle cose che creavano già morte. Erano tutti sterili, maschi e femmine. Queste ultime, forse per il compito assegnato loro in origine, percepivano ancora un tenue e distorto riflesso dello stimolo vitale primigenio. Uscivano allora in titubanti frotte dal formicaio quando la vita scendeva più bianca dal cielo e andavano barcollando a bruciarsi nell’amplesso dell’antica luce. Rientravano in massa poco dopo mugolando come bestie ferite e correvano a bearsi del tutto innaturale che subito le avviluppava con forza, quasi a redarguirle dell’audace intemperanza. Tutte si adeguarono ripudiando in toto l’astro chiamato Sole.

Una grande macchina nutriva tutti, una seconda macchina li pigmentava, una terza fecondava le femmine, il cui prodotto veniva loro subito tolto onde sollevarle dall’inutile gravame dell’allevamento, retaggio di tempi barbari. Un complesso madre provvedeva a tutto insegnando ai cuccioli il primo rudimentale linguaggio binario, onde metterli in grado di comprendere le istruzioni delle più semplici macchine.

Onde evitare per sempre future uscite all’esterno, le macchine provvidero in tempi brevissimi a costruire pesanti lastre di piombo posizionandole sopra i cento occhi del luccicante palazzo. Il quale, stranamente, parve soffrire dell’improvvisa cecità. Ma nulla poté se non chiedere consiglio a madre Terra, alla quale era ancora legato per misteriosi legami posti nel sottosuolo sconosciuti persino alle macchine.

Nessuna risposta ci fu.

Il figlio artificiale dell’uomo chiamò allora a gran voce tutt’intorno a sé.

Nessuna risposta ci fu.

Smarrito, il figlio artificiale dell’uomo spinse gli occhi spenti a cercare fuori di sé. Cercava la bianca vita che sapeva esserci sempre. Ne percepiva, infatti, seppur parzialmente, il debole fiato.

A tale invocazione d’aiuto i mille occhi verdi della foresta si volsero allo spento palazzo sulla grande piana e tutti gli animali un tempo fratelli dell’uomo sussurrarono al cielo.

L’astro Sole udì il richiamo, ma, impotente, abbassò i brucianti occhi a guardare l’innocente creatura saldata nella piana.

“Poco posso. Tu colpe non hai, poiché così fosti creato. L’ultima speranza risiede tuttavia in te. Questo soltanto sò dirti: quando il mio corso è a metà del cammino e il mio corpo è alto nel cielo scopri una parte di te, anche piccola, e lascia cadere la mia bianca vita su uno dei poveri insetti che porti al tuo interno. Cerca il più inetto, poiché su quello soltanto posso ancora qualcosa …“.

Una nuvola nera oscurò le mute parole e null’altro fu espresso.

Il figlio dell’uomo cercò nel suo corpo l’insetto più idiota. Tanti erano là dentro e il suo compito si presentò disperato.

Nei sotterranei regnavano le macchine pensanti, il sublime ottimo, servite dagli individui più quotati della colonia: i sacerdoti. Essi rappresentavano l’anello di congiunzione tra le dispensatrici di vita e gli altri sudditi, che nulla potevano se non obbedire ciecamente.

Nelle viscere del mostro di vetro e metallo i cervelli della sesta generazione pensavano, creavano, ordinavano. I sudditi, obbedienti e bisognosi di tutto, correvano servili, attenti a ogni fonte di luce.

Gli implacabili occhi multicolori nascevano e morivano senza posa da tutte le macchine sistemate in parallelo. I segnali acustici, collocati ovunque, trasmettevano alle creatrici ogni suono generato dai sacerdoti, analizzandolo e motivandolo. Le onnipotenti creatrici conoscevano l’uomo nella sua più intima essenza.

Il figlio dell’uomo sensibilizzò le sue strutture, quelle ancora parzialmente attive, cercando intorno. Il suo affannoso travaglio cominciava ora.

Si provò a smuovere i visceri, ma non li sentì suoi. Le macchine legavano le strutture portanti e lo scheletro interno con invisibili fili di pensiero magnetico. Troppo alta la loro funzione per non cautelarsi nei confronti dei capricci dell’involucro: un essere estraneo creato dall’uomo quando, ancora barbaro, celebrava i riti pagani della madre Terra.

Orfano di creatori cui rivolgersi in caso di bisogno, incapace di comandare a sé stesso, l’innocente prodotto della deviazione incosciente volse la sua attenzione agli insetti. L’immagine del padre era ancora viva nel suo ricordo: scuro di sole e nero di pelo in capo, forte di arti possenti e ricco di vibranti suoni. Con tale ricordo si domandò incredulo se quegli esseri opalescenti come certi suoi vasi interni adibiti al trasporto di residui, privi di pelo in cima, né altrove, il cui unico suono era un lamentoso sussurro di sterile impotenza, fossero i discendenti del suo creatore. Strisciavano simili a vermi tra i cervelli grandi e potenti. I loro arti erano ridotti a peduncoli cartilaginosi che, patetici, fendevano l’aria artificiale. Sentivano più che vedere: le enormi orbite spente apparivano vuote di globi oculari. L’innocente figlio dell’uomo abbandonò deluso i visceri e risvegliò i sensi nelle celle superiori.

Lassù sentì già di appartenersi. Riuscì persino a provocare qualche scricchiolìo nelle strutture atrofizzate. Passò a esaminare le macchine. I cervelli della quinta generazione si presentavano di mole inferiore rispetto ai precedenti. Gli insetti, un tempo umani, si aggiravano servili tra le macchine pensanti. Il rapporto della loro sudditanza, sfacciatamente palpabile nel regno delle macchine inferiori, quassù si presentava in parte affievolito.

Salì rapido i piani del suo sviluppo.

La quarta generazione, i cui membri apparivano tutti di dimensioni ridotte, presiedeva ancora a funzioni di carattere parzialmente creativo, pur senza raggiungere livelli superiori.

Il figlio artificiale dell’uomo scoprì che il progressivo rimpicciolimento delle macchine   era direttamente proporzionale all’involuzione degli insetti. Costoro presentavano qui un tessuto esterno roseo e robusto, qualche timido pelo qua e là e articolazioni abbastanza sviluppate. Di misura che ascendeva ai piani superiori le fattezze degli umanoidi si avvicinavano gradatamente ai canoni originali programmati dalla madre Terra. Al contrario le macchine tendevano ad allontanarsi dalla perfezione.

Ascese ancora con i suoi strumenti di percezione curiosamente acuitisi.

Giunse sotto la fine, ma la sua ricerca era ancora ben lungi da risultati soddisfacenti. Delusione e scoramento serpeggiarono attraverso le sue strutture.

Era sul punto di abbandonare gli estremi comparti quando percepì uno strano senso di calore misto a una vaga luminosità. Si cercò meglio addosso e scoprì che un piccolo spicchio di tessuto interno era stato colpito da una lamella di luce verdastra. Acuì la sensibilità di ogni sua molecola di ferro e silice e scoprì l’impossibile.

Il raggio verdastro lo portò a esaminare l’ultima, obliata cella.

Era invasa dal colore verde.

Le macchine avevano dimenticato di oscurare quel piccolo occhio del quale era sconosciuta l’esistenza.

Non si trattava di una colpevole dimenticanza, ma semplicemente la consapevolezza dell’inutilità.

La cella abbandonata ospitava l’ultimo insetto-uomo respinto lassù dalle macchine per la sua universale incapacità. Peraltro, la sua eliminazione era stata decretata dalle macchine motivata della sua sacrilega resistenza alla trasformazione evolutiva.

Si chiamava Obsolet ed era l’unico individuo della colonia ancora barbaramente identificato con un nome. Si trattava di un esemplare maschio e viveva senza servire alcuna macchina.

Nessun segno di civiltà superiore lo circondava. Era palese il fatto che praticava il culto proibito del ricordo. Era infatti attorniato da taluni rudimentali strumenti dell’epoca primaria, resi inservibili dall’evoluzione.

Non faceva praticamente nulla di utile. Si era macchiato dell’accusa più infamante: l’inettitudine a servire una macchina. Egli, tuttavia, non se ne doleva.

Il figlio artificiale dell’uomo lo studiò avidamente. Obsolet assomigliava a suo padre più di ogni altro essere esaminato fino a quel momento: ambrato di tessuto, ma nero di pelo e forte di arti possenti, che teneva nascostamente in esercizio con movimenti strani e blasfemi. Emetteva un suono basso e vibrante che, a volte, per brevissimi istanti, modulava armonicamente. Trascorreva gran parte del suo inutile tempo contemplando l’astro Sole, che egli credeva di colore verde. Il silice, colorato e trasparente, gli rimandava l’immagine del globo infuocato al quale Obsolet si sapeva inconsciamente legato da sempre.

Madre Terra lo chiamò.

La sua voce si perse in un sibilo, ma egli percepì chiaramente il richiamo. Si preparò accanto al grande vetro e cercò alto nel cielo.

Una macchia nera nacque nel corpo del Sole. Crebbe muovendosi e colmò di buio la bianca vita che scendeva muta. Entro un possente battito oscurò la cella dimenticata e si presentò viva, forte e libera al di là dell’immoto silice.

La macchia dunque viveva. Si trattava di un essere grande e pennuto munito di enormi ali. Reggeva alle estremità degli artigli che trattenevano un oggetto metallico, corroso e arrugginito dal tempo. Obsolet parve ravvisare in quelle forme una primitiva macchina.

“Io sono l’aquila, la figlia più libera di madre Terra. Vengo per te. L’oggetto che reggo tra gli artigli è stato il principio della tua fine e sarà il principio della fine del sistema“.

Gli aveva parlato dai luminosi occhi, ma l’uomo capì. E la mente gli esplose e il ricordo tornò come un fiume impetuoso a permeare il suo pensiero. Che fu subito colmo di un azzurrissimo mare circondato da grandi macchie di intenso verde. Creature viventi agivano in modi diversi riempiendo tutto quel verde.

L’aquila gli parlò di nuovo:

“Allontanati dallo schermo e preparati a seguirmi”.

La massa nera dell’aquila passò rasente il silice e gli lanciò con forza l’oggetto che reggeva tra gli artigli. Mille bagliori di schegge ferite brillarono nell’aria: la cella era libera.

L’astro Sole riempì lo sterile antro con la sua chiara luce, rivestendo ogni cosa di nuovi colori. Obsolet cessò di credersi verde e vide finalmente il suo corpo pigmentarsi dell’antico colore.

L’aquila riapparve all’uomo e afferratolo con artigli forti e gentili lo strappò dall’usata prigione.

Dal profondo dei visceri le macchine analizzarono il pericolo e inviarono masse di servi a punire il traditore. Costoro, al primo contatto con l’aria del mondo caddero fulminate al suolo. Lingue di fuoco nacquero dalle macchine e si propagarono veloci in tutto il complesso.

Nell’abbraccio sicuro dell’aquila Obsolet si colmava gli occhi di nuovo sole e nuova vita.

D’improvviso un rombo sordo vibrò nell’aria. Obsolet volse gli occhi. Una densa nube di fumo nerastro nasceva dal corpo di madre Terra. Il bubbone infetto era esploso e i mille frammenti della sua materia cadevano al suolo senza rumore.

La grande aquila calò nel verde e posò dolcemente Obsolet sul morbido suolo. Sgravata del suo compito ascese di nuovo nel cielo e rapidamente scomparve.

Obsolet posò gli occhi sul mondo e subito rammentò tutto di sé. Prese a muoversi sul terreno osservando ogni cosa. Pensò che un immane lavoro l’aspettava. Si disse che bisognava ricominciare ad agire.

“Fare! Fare! Fare!“, andava urlando a tutto ciò che incontrava. Osservò i tanti alberi che crescevano rigogliosi.

“Vi abbatterò“, mormorò come parlasse a sé stesso.

“Plasmerò la vostra materia e ne farò case, navi e pesanti barriere per proteggere la stirpe che da me nascerà“.

Osservò i primi animali che gli capitarono sott’occhio.

“Vi ucciderò. Placherete la fame. Vi asservirò. Sarete il perenne simbolo della mia potenza“.

Osservò un torrente che correva presso i suoi piedi.

“Imbriglierò le tue acque e sfrutterò la tua forza“.

Osservò la terra sotto i suoi piedi.

“Ti romperò e ti feconderò. Ti farò partorire i frutti che io desidero. Ti scaverò nel cuore traendone metalli per costruire le armi che mi difenderanno“.

Osservò il cielo.

“Anche tu sarai mio. Gli strumenti del mio potere solcheranno i tuoi spazi e andranno oltre i tuoi confini“.

Un tremendo singhiozzo di madre Terra gli troncò nuove parole tra i denti. Il Sole fu presto nascosto dietro una coltre di nuvole. Gli alberi presero a scuotersi entro un vento impetuoso. I loro rami divennero braccia che scesero sull’uomo e ne flagellarono il corpo. Animali diversi lo circondarono azzannandolo.

Madre Terra pianse e si aprì in un aspro singhiozzo ingoiando l’ultima sua creatura.

D’un tratto il Sole tornò a splendere alto nel cielo e gli alberi ripresero a stormire in un lento alito di vento. Ogni animale ritrovò la naturale mansuetudine. Dalla ferita ormai chiusa di madre Terra filtrò in suo ultimo pianto che divenne fonte, ruscello, torrente, fiume, lago e mare.

Fra i romanzi di  Sergio Cioncolini pubblicati da Pendragon ricordiamo Il cortile del diavolo (2011), I giorni corti (2012), Andava a veder morire i piccioni (2014), L’albero delle bionde (2015), Un’isola sottovento (2016), Un coltello di ceramica verde (2018), Danni collaterali (2019) e Vacanza di sangue (2020).