La vulgata critica degli anni 70 sostiene che l’elettronica dei Kraftwerk sia nata dall’origine dei fondatori, Florian Schneider e Ralf Hutter, nativi di Düsseldorf, cuore della Ruhr e dell’industria meccanica. E che dunque la loro dovesse essere per forza una musica spersonalizzata, oserei dire non umana. In realtà i 2, attorniati in modo più o meno costante da Klaus Dinger, Michael Rother e Wolfgang Flür, sono degni discepoli della Darmstädter Schule. Polistrumentisti ma soprattutto esperti di elettronica, esordiscono con Kraftwerk (1970), disco altamente sperimentale dove l’unico aspetto ritmico è rintracciabile in Ruckzuck, in cui un flauto filtrato al sintetizzatore esegue la scala musicale ripetendola a velocità sempre maggiore con un meccanicismo che, suppongo, sarebbe piaciuto ai Devo. Un’elettronica atonale domina maggiormente le altre tracce, in particolare la suite Megaherz.
Kraftwerk 2 (1971) è su quella falsariga. Schneider e Hutter sono più ingegneri del suono che veri e propri musicisti. In questo senso KlingKlang è significativo: all’inizio è pura musica concreta che poi si scioglie in un’interessante pulsione ritmica. Si tratta del 1° loro brano che pare (finalmente!) somigliare a qualcosa di rockeggiante, mentre Atem somiglia da vicino ad Augmn dei Can per poi assurgere a un certo lirismo degli strumenti tradizionali: filtrati, ovviamente, dall’elettronica.
Per alcuni Ralf & Florian (1973), il 3° Lp, è forse il loro migliore. C’è parecchia elettronica ma anche spunti musicali davvero notevoli, come dimostrato dall’utilizzo del flauto in Tongebirge o del clavicembalo filtrato in Kristallo, che creano una sorta di minuetto elettronico e inquietante. Meglio ancora la lunga Ananas Symphonie che si dipana fra il pizzicato delle corde del pianoforte, una chitarra dalle atmosfere arcane e un’elettronica minimalista che si serve dell’appena inventato vocoder. È musica per specialisti, molto settoriale. Perciò è incredibile che il disco successivo, Autobahn (1974), riesca a vendere centinaia di migliaia di copie negli Usa. Non è un Lp molto più facile dei precedenti: brani come Kometenmelodie 1 e 2, inquietanti, potrebbero stare anche nei primi dischi dei Tangerine Dream. Ma i Kraftwerk, qui, azzeccano brevi sequenze ritmiche accattivanti e quasi poetiche: in particolare, com’è ovvio, nella title track. Da qui in avanti sarà un crescendo. L’elettronica si depurerà sempre più alla ricerca della sequenza ritmica ripetitiva, minimalista, di vago ricordo rileyano ma capace di rimanere impressa nella mente degli ascoltatori. In tal senso Radioactivity (1975) è geniale. Tuttavia la bellezza intrinseca del brano che dà il titolo all’album offusca composizioni fortemente ritmiche come Antenna; o elettronicamente poetiche come Airwaves.
Divenuti famosi a livello mondiale, i Kraftwerk decidono di interpretare fino in fondo il ruolo di ingegneri del suono e di musicisti “tecnologici” esibendosi in concerti dove il loro atteggiamento è di freddezza meccanica e i loro movimenti robotici. La formazione, fra 1975 e il 1976, si stabilizza sui 2 fondatori con il vecchio amico Wolgang Flür e il nuovo entrato Karl Bartos. Tutti addetti all’elettronica: anche Flür che non è un batterista tradizionale bensì un “percussionista elettronico”. I 2 dischi successivi, Trans-Europe Express (1977) e The Man Machine (1978), portano il gruppo direttamente in discoteca con la sconfessione definitiva (forse per gli episodi più facili, come il brano che dà il titolo al 1° dei 2 Lp o The Model nel 2°) da parte della critica e dei fan più ”impegnati”. Non si può negare, però, che si tratti di prodotti musicali elettronici fra i più accattivanti che si siano mai ascoltati; e tutto sommato, riascoltandoli oggi, non è detto che siano nati per strizzare l’occhio alla moda, o almeno non solo per questo, dal momento che la sequenza dei dischi mostra una sorta di “progressiva purificazione” del suono che si allontana, per esempio, dalle ingenuità sperimentali dei primi due Lp. In più, va accreditata una grande coerenza dei musicisti i quali, fedeli al concetto di uomo-macchina, spesso e volentieri faranno esibire dei robot al loro posto.
Senza arrivare a questi eccessi futuristici, è probabilmente grazie a un medesimo sentire che nel 1977 Giorgio Moroder (il più longevo tra i musicisti elettronici) pubblica From Here To Eternity, disco inconcepibile se non fossero esistiti i Kraftwerk. Ed è grazie a loro se David Bowie sterza totalmente verso l’elettronica con la trilogia Low, Heroes e Lodger. Considerando tutta la musica dagli anni 80 in poi, la disco sempre più elettronica e i dj che aspirano allo status di musicisti (anche se l’esempio di Moroder, culturalmente parlando, è inarrivabile) come dar torto a Tim Sommer, giornalista di LA Weekly, che in un articolo del settembre 2017 ha scritto che i Kraftwerk sono stati più influenti dei Beatles?