Giusto 40 anni fa, quando il manager lo induceva a presentarsi in pubblico con il nome d’arte di John Cougar, l’album American Fool e i singoli Hurts So Good e Jack And Diane proiettavano John Mellencamp nel mainstream, nelle classifiche e nell’immaginario pop americano come alter ego di Bruce Springsteen. Uno originario della East Coast, l’altro proveniente dal Midwest più profondo, erano 2 simboli dell’America operaia che cercava riscatto attraverso le chitarre elettriche e il rock and roll; 2 provinciali che a lungo hanno proceduto su binari paralleli annusandosi, confrontandosi e riconoscendosi; 1 fratello maggiore e 1 fratello minore («io ero lo Springsteen dei poveri», chiosa ironicamente John) che qualche mese fa abbiamo visto e ascoltato per la prima volta insieme nel video di Wasted Days, ballata malinconica, rugosa e crepuscolare sul passare inesorabile del tempo, incipit scioccante (“Quante estati rimangono?”) e strofe avvolte da una cappa di ineluttabilità (“La fine sta arrivando/è quasi qui”).
John Cougar Mellencamp
È 1 dei 3 featuring di Bruce nel nuovo album del collega dell’Indiana, Strictly A One-Eyed Jack, tenuti sotto traccia e neppure reclamizzati da 1 sticker in copertina perché al Mellencamp di oggi il marketing sembra interessare poco o nulla: il ciuffo ribelle, lo sguardo penetrante e l’aria incazzosa di American Fool sono rimpiazzati da un volto avvizzito, da una barba bianca e da una benda sull’occhio nel ritratto di copertina dipinto da suo figlio, Speck. Lo spirito scostante e belligerante del “Little Bastard” (soprannome a cui resta legato e che ancora utilizza nei crediti) è sempre lì, smussato da un atteggiamento più pessimista e fatalista; la voce alla nicotina è ormai catrame puro dopo tutte quelle sigarette «che un giorno mi uccideranno» e a cui non ha rinunciato neanche dopo un infarto subìto nel 1994.
Il suo 24° album di studio ce lo presenta come un uomo e un artista consapevolmente incamminato sul viale del tramonto. Ed è spietatamente autobiografico, si direbbe, anche se alla stampa americana Mellencamp ha spiegato che le canzoni sono un transfert: veicolano, sostiene, la voce di un unico personaggio immaginario che per loro tramite racconta la propria storia. Gli assomiglia molto, però, quell’uomo che si chiude a riccio e contrattacca in un mondo pieno di bugie e di fake news (I Always Lie To Strangers, dolente e sofferta come poche altre cose del suo catalogo), che riflette nostalgicamente sulla beata incoscienza di una gioventù sfrenata (Driving In The Rain), che si schernisce presentandosi come un loser, un perdente predestinato in cui gli altri vedono ciò che vogliono vedere (come Gesù, in Streets Of Galilee), e che ancora reagisce digrignando i denti alle maldicenze che girano sul suo conto.
La musica che usa per trasmettere quel livore e quei pensieri cupi è ispida e ossuta; e spesso richiede una forte dose di attenzione, pazienza e concentrazione. Proseguendo sulla strada in cui si è incamminato almeno da una ventina d’anni, John sceglie di preferenza la lingua del folk, della roots music e della canzone d’autore; arrangiamenti prevalentemente acustici con chitarre e violino in primo piano, oppure quel pianoforte da jazz club fuori orario che scandisce Gone So Soon, un po’ Tom Waits prima maniera e un po’ l’Elvis Costello di Almost Blue: una storia d’amore al tramonto intrisa di spleen e con un inusuale assolo di tromba che, se ancora fosse in vita, avrebbe probabilmente stregato anche Chet Baker.
Il vecchio puma non ha perso del tutto gli artigli, e li sfodera di tanto in tanto: graffia nel folk rock, dark e sinuoso, di Sweet Honey Brown, una canzone d’amore apparente che narra in realtà di un rapporto tossico con l’eroina; nelle stilettate e nelle vibrazioni elettriche di Lie To Me e in Did You Say Such A Thing (dove Springsteen si lancia in un bell’assolo alla Telecaster), con quei riff taglienti e guizzanti che lo hanno reso famoso, un piglio grintoso e un antico sapore rockabilly. Anche nel folk blues aspro di I Am A Man That Worries, percussioni fragorose che evocano una banda circense o un imbonitore da medicine show, il protagonista è un istrice dagli aculei ben dritti, un uomo preoccupato dal presente e dal futuro che è meglio tenere a debita distanza quando lo si incontra per strada. È, quella, una delle tante canzoni adatte a questi tempi di pandemìa e di isolamento, anche se il country mosso di Driving In The Rain è l’unico momento in cui l’artista, recuperando un’espressione verbale con cui il nonno era solito metterlo in guardia dai pericoli delle sue prodezze giovanili, s’ispira esplicitamente al lockdown e alle traversìe di questi ultimi 2 anni.
La sua band di fedelissimi, con i chitarristi Mike Wanchic e Andy York (anche direttore musicale e polistrumentista), la violinista Miriam Sturm, Troye Kinnett alle tastiere, John Gunnell al basso e Dane Clark alla batteria, si sintonizza perfettamente sugli umori del leader tenendo spesso il freno tirato, nella parabola biblica di Simply A One-Eyed Jack come nell’unico momento di relativo conforto, quando tra gli spiragli di luce e il calore di Chasing Rainbows la voce grave e usurata di John incontra quella soave dell’altra violinista Merritt Lear (già a suo fianco nel Good Samaritan Tour del 2000 recentemente documentato su disco), invitando a fuggire dalle illusorie ricompense della fama e del denaro per ricercare altrove la vera felicità. Ma è solo un momento di respiro, prima che la fisarmonica e l’atmosfera europea di A Life Full Of Rain (con la chitarra di Springsteen nascosta nelle retrovie) diano voce alla maledizione di una vita solitaria e piena di pioggia “senza un posto asciutto dove stare”.
Raramente si era ascoltato un Mellencamp così sconsolatamente rassegnato, pronto a dar voce a fantasmi e angosce esistenziali amplificate dalla spigolosità del suo carattere. «Non mi piace tranquillizzare la gente», ha puntualizzato durante una recente intervista alla rivista Forbes, lui «vecchio dinosauro» che ammette di non sentirsi più «un artista per tutti». Eppure, giura, si è divertito parecchio a registrare un disco ostico e tenebroso come Strictly A One-Eyed Jack, con il ticchettìo dell’orologio che gli si incunea nell’orecchio e il pensiero della morte che si intrufola in un angolo della mente. Un disco da crooner e da cantautore in cui raramente si risveglia il vecchio prurito rock and roll; il quadro minaccioso e fosco di un musicista/pittore che oggi guarda a Louis Armstrong e a Nat “King” Cole come a Bruce Springsteen, a Bob Dylan e a Woody Guthrie, lasciandosi suggestionare dal cinema e dalla letteratura che ha sempre amato.
Il Mellencamp del 2022 è un fante monocolo, un incallito giocatore di poker che (lo ha detto a Forbes) sogna di sedersi a un immaginario tavolo da gioco in compagnia di Bob Dylan e di Arthur Miller, di John Huston, di Marlon Brando e di James Cagney, archetipi di una certa cultura classica e popolare americana al cui fianco si sente perfettamente a suo agio in quest’ora del crepuscolo.