Mentre al di là dell’oceano Andy Warhol serigrafava lattine di Campbell’s Soup e Roy Lichtenstein produceva fumetti giganti, a Londra negli anni 60 Joe Tilson (1928-2023) alimentava il sogno della British Pop Art. Accostando immagini, parole e segni in un’esplosione cromatica dipinta su tela grezza, l’artista ha dato vita all’A-Z Box, agli Ziggurat, alla Geometry…
Niente cartoons né feticci trafugati al consumismo: Joe Tilson ha attraversato la storia forse meno spettacolare della Pop Art, ma senz’altro la più poetica. Desidero ricordarlo con questa mia intervista del 2001 alla Galleria Giò Marconi di Milano, in occasione della personale Conjunctions.
Com’è entrata l’arte nella sua vita?
«Mi aspettava ogni giorno a poche fermate di metropolitana da casa mia. Avevo 13 anni, scendevo a Charing Cross dove c’è la National Gallery e mi lasciavo ammaliare dagli affreschi di Tiziano e di Piero della Francesca. Poi, a Charing Cross Road, giravo per librerie a caccia di cataloghi d’arte».
Zikkurat 9, 1967
Finché si è trovato faccia a faccia con la Pop Art.
«Così dicono i mass media ed è esatto. In realtà ho cominciato a dipingere a 8 anni e l’idea di affermarmi non mi interessava granchè. Ricordo di aver vinto un premio disegnando le strade londinesi e un running prize da piccolo maratoneta: la giuria aveva messo in palio un coltello o, a scelta, un libro. Ho scelto quest’ultimo, s’intitolava Giotto e i primitivi italiani. È stato allora che ho compreso l’importanza dell’arte italiana. Poi mi sono messo a lavorare come falegname imparando i segreti della manipolazione del legno; quindi ho studiato alla St. Martin’s School of Art e al Royal College of Art. Alla fine degli anni 40 ho imparato l’italiano e ho raggiunto Milano, Firenze, Roma e la Sicilia, fermandomi a Monreale ad ammirare gli antichi mosaici».
Look, 1964
Che cosa ha rappresentato la Pop Art inglese?
«La reazione di noi absolute beginners al buio del dopoguerra. Una volta mio nipote mi ha chiesto: “Nonno, ma quando eri giovane era tutto in bianco e nero? “. Era proprio così, e per reazione abbiamo scoperto l’America come universo in technicolor, pieno di icone cinematografiche alla Tarzan. All’Istitute of Contemporary Art ci sono entrato come Richard Hamilton, Eduardo Paolozzi e il critico Lawrence Alloway, che ha inventato il termine Pop Art ben prima degli americani».
Keramos, 1989
Avevate un luogo d’incontro, un quartiere dove potervi confrontare?
«In generale l’uptown londinese, colto e raffinato, ha catturato l’attenzione di Richard Hamilton, mentre la parte downtown, colma di botteghe che vendevano libri usati, fumetti e sigarette, è diventato il quartier generale di Peter Blake. Come dire: cultura alta contro subcultura. Io ero in mezzo, sempre più attratto dalla storia e dalla mitologia greca con i suoi simboli alchemici. Spesso trovavamo un compromesso a Soho, in locali come la Colony Room e il French Pub. Soho era uno strano paradiso, negli anni 50; un’isola beata d’immigrazione italiana: in Old Compton Street si beveva un buon caffè e si mangiavano spaghetti al dente, mentre nel resto della città il cibo era pessimo».
Come vede oggi Londra?
«In continua trasformazione, ma con le radici ben salde nel passato. Ci sono però zone che non mi piacciono, come i ristrutturati Docks: strapieni di multinazionali, di denaro ma deserti la sera. St. Katherine’s Dock, con i suoi yacht ormeggiati, sembra lo scenario di un film americano. Nel 1968 i Docks sono stati messi in vendita e noi artisti abbiamo creato l’Acme Space, trasformando in loft quegli spazi vittoriani che oggi sono sprecati».
Arts Review, 19 February 1966
E i nuovi spazi destinati all’arte?
«Penso alla Tate Modern: un’attraente struttura a esclusivo consumo dei turisti, con una triste collezione. Immensi spazi da riempire con sculture fatte su misura. Alla Tate non c’è spazio per Giacometti, Picasso, Brancusi o Degas, perché non funzionerebbero. Per quanto riguarda invece le gallerie private, nulla da dire: da Hackney Road e Cork Street, da Old Bond Street a Portobello Road ce ne sono parecchie e tutte innovative. Un discorso a parte lo faccio sugli artisti emergenti, cacciati nei sobborghi per via dei proibitivi costi immobiliari. E pensare che una volta Londra, come Parigi, era un luogo memorabile per i pittori squattrinati…».