Mezzo secolo fa, il 21 ottobre 1969, moriva a 47 anni il mio eroe letterario: Jack Kerouac. Nell’estate del 2016, a Parigi, ho finalmente coronato il sogno di una vita: guardare da vicino il manoscritto originale di On The Road (Sulla strada, 1951), quel prezioso rotolo di carta per telex di 360 x 22 cm. disteso in una teca, da ammirare in religioso silenzio come una reliquia, scoprendo quelle prime battute: “I first met Dean not long after my dad died…”. Quell’estate, al Centre Pompidou, avevano allestito la straordinaria retrospettiva intitolata Beat Generation. Emozionatissima, mi sono trovata a esplorare una vasta selezione di fotografie, disegni, dipinti, collages, video e musiche percorrendo un itinerario virtuale che ha toccato New York, San Francisco e Parigi. Il termine “beat” (“beato“, oltre che “battito del ritmo“) si è riacceso come un flash nella mia mente, sulle pareti del museo, nelle teche, nei filmati… Era stato Kerouac a coniarlo con intento religioso e tutt’altro che politico o contestatario, in quell’epoca lacerata da netti contrasti sociali. E c’era quell’altra teca che racchiudeva la sua divisa da alcolizzato cronico: berretto da baseball, pantaloni sgualciti, t-shirt, un paio di scarpe di tela bianche, la fiaschetta che forse conteneva ancora qualche goccia di Tocai, il suo vino preferito.

Desideroso di fama fino all’ossessione di diventare scrittore, Jack apprende nozioni letterarie frequentando nel 1940 la Columbia University di New York. Grazie a Lucien Carr, conosce William Burroughs e Allen Ginsberg. È l’origine della Generazione Beat. Time Square e Harlem sono i luoghi più frequentati, dove soddisfare quell’irrefrenabile voglia di fumosi locali jazz sintonizzati sul bebop. Esperienza d’ascolto, quest’ultima, che lo spronerà a scrivere in prosa spontanea, figlia di quella scrittura automatica coniata dai Surrealisti. Ti Jean, si mette a firmare i suoi scarabocchi pittorici e le innumerevoli lettere inviate alla famiglia e agli amici. La sua scrittura, la definisce “un fiume in piena di parole che invade la carta fissata sulla macchina per scrivere. Nessun freno, le mani devono procedere pari passo con la mente. Come nel jazz, per le note, anche nella scrittura le lettere devono essere scandite in modo fluido e senza incertezze, una jam session di parole. TATATATATATAATATTATATATATA… e così via”. Negli anni a seguire, Kerouac misurerà i propri (spesso fallimentari) tentativi letterari con i suoi amici “intellettuali” in un rincorrersi di stati emotivi che lo renderanno instabile a tal punto da sfogare la propria negatività in orge promiscue, soffocato da quei sensi di colpa (lui che era profondamente cattolico) da espiare nel whiskey e nella benzedrina. Il bisogno assoluto di libertà lo sperimenta quando a 26 anni incontra Neal Cassady, un giovanotto di Denver senza arte né parte, reduce da anni di riformatorio. Con lui condivide periodi frenetici: lunghi viaggi attraverso l’America in auto, treno merci, autobus; innamorato della stessa donna, Carolyn Robison, che Cassady sposerà. Un cumulo di esperienze di vita che nel novembre del ‘48 lo inducono a iniziare a scrivere On The Road. Per 3 settimane il ticchettìo della sua macchina per scrivere Underwood portatile lo scuote dal torpore che segue puntualmente ogni baldoria. Nel ‘50, la casa editrice Harcourt Brace gli pubblica The Town And The City (La città e la metropoli): finalmente, per le cronache letterarie, Jack Kerouac è uno scrittore. Nel frattempo Sulla strada è sempre di più la sua frustazione: da sfogare inviando lagnose lettere a Ginsberg e a Burroughs. Un logorìo terribilmente lungo e distruttivo, per la sua psiche già vulnerabile. Nel ‘57, pur di pubblicare il suo romanzo dovrà scendere a patti con la Viking Press tagliandone e semplificandone la stesura. La versione originale e integrale, edita nel 2010 da Mondadori e intitolata On The Road. Il «rotolo» del 1951, si è rivelata ai miei occhi un altro libro: più vero, più audace, più accattivante. Piaccia o meno Kerouac, Sulla strada rimane l’imprescindibile manifesto della Beat Generation; e continuerà ad essere protagonista delle letture delle generazioni future, identificando quell’eterno bisogno di libertà che ogni giovane esistenza auspica.

Nonostante la parentesi buddista alla vana ricerca dell’equilibrio perduto e il successo tardivo riscosso dal romanzo, anziché godersi la popolarità e gli introiti dei diritti d’autore Jack si chiude sempre più in se stesso («Credo di essere un bravo scrittore, ma non sono un uomo coraggioso») lasciandosi lentamente vivere, giorno dopo giorno, nell’insignificante cittadina che gli ha dato i natali – Lowell, nel Massachusetts – fra quelle 4 mura in compagnia dell’anziana madre Gabrielle, stravaccato su una poltrona lisa, intronato dall’alcool mentre accarezza un plausibile discendente di Tyke, l’adorato gatto citato nel romanzo Big Sur. La sua è una solitudine senza via d’uscita, malgrado l’amicizia profonda di Allen e William che non condividono le sue sbornie e che lui, di contro, detesta in quel loro sentirsi hippie, pacifisti, fricchettoni, comunisti borghesi. Diffida di tutti, anche di chi per convenienza l’ha accudito e per abitudine amato: la moglie Stella Sampas, sorella di un compagno d’infanzia di origine greca morto in guerra; l’unica promessa (sposarla) che Jack ha mantenuto. «Bevo perché sono cattolico e non posso ammazzarmi in un colpo solo», è la lamentela quotidiana con cui sfida la sorte. La mattina del 20 ottobre ‘69 è come al solito in salotto a guardare la tv, sprofondato nella sua poltrona-cuccia e impegnato ad aprire una scatoletta di tonno, quando all’improvviso si precipita in bagno e un fiotto di sangue gli esce dalla bocca. La cirrosi ha ormai fatto il suo corso. Viene ricoverato d’urgenza all’ospedale più vicino e dopo 26 trasfusioni e 1 intervento chirurgico in meno di 24 ore esala l’ultimo respiro dando il definitivo calcio al suo grande talento di scrittore. Forse non del tutto compreso. La sua tecnica, comunque, ha ispirato persino il mio modo di scrivere. Così, di getto.

Foto: © Eleonora Tarantino 2016