Se Pantone dovesse decidere a sorpresa di pubblicare dischi, mischierebbe i colori e ne uscirebbe fuori una palette di celeste, verdigris, quicksilver, cerulean blue… Mixing Colours, in buona sostanza: che esiste eccome, ma batte bandiera Deutsche Grammophon. Con le sue sonorità che paiono acquerelli, è l’album più cromatico che ci sia oggi in circolazione; e non potevano che architettarlo gli Eno, da Woodbridge, Inghilterra, coppia di fratelli tutt’altro che coltelli, pittori del pentagramma e impressionisti (lo sono da sempre) di ambient music.
Breve rewind biografico, che non guasta mai. Il fratello più grande, classe 1948, chilometricamente Brian Peter George St John le Baptiste de la Salle Eno, in sintesi Brian Eno, quando sfoggiava il mascara e le piume di struzzo ha letteralmente dettato le coordinate sperimentali dei primi 2 ellepì dei Roxy Music (1972: Roxy Music, 1973: For Your Pleasure) e da solista ha intellettualizzato il glam rock con quel gioiello intitolato Here Come The Warm Jets (1973) per poi diluire a poco a poco la sua voce tutt’altro che disprezzabile in virtù di un continuum elettronico per ambienti (4 dischi su tutti, in una marea di titoli: Ambient 1: Music For Airports e Music For Films del 1978, Ambient 4: On Land del 1982, Apollo: Atmospheres And Soundtracks del 1983).
Brian Eno e Roger Eno
Da tramandare puntualmente ai posteri, oltre alle collaborazioni con altri artisti (David Bowie, David Byrne, John Cale, Robert Fripp, Cluster, Roedelius & Moebius, Harold Budd, Jon Hassell, Michael Brook, Daniel Lanois, Jah Wobble, 801, Phil Manzanera, Bryan Ferry, Lady June, Robert Wyatt e scusate se me ne sono dimenticato qualcuno) certe pietre miliari da lui prodotte: Music For The Penguin Cafe (1976), Ultravox! (1977), Q: Are We Not Men? A: We Are Devo! (1978), More Songs About Buildings And Food (1978) e Fear Of Music (1979) dei Talking Heads, The Unforgettable Fire (1984), The Joshua Tree (1987), Achtung Baby (1991) e Zooropa (1993) degli U2…
Stringatissimo curriculum per il fratello minore, il minimalista Roger Eugene Eno, classe 1960, inevitabilmente “oscurato” da cotanto non-musician ma con una trentina di album alle spalle (da Voices del 1985, a This Floating World del 2017) nonché collaborazioni di vaglia (Laraaji, Harmonia Ensemble, Kate St John, Peter Hammill, Lol Hammond, Plumbline, David Gilmour). Ed è proprio Brian a farlo debuttare nel 1983, nel suo Apollo: Atmospheres And Soundtracks che rivedrà la luce il prossimo 19 luglio come Apollo: Extended Edition, con l’aggiunta di 11 brani strumentali raggruppati nel titolo For All Mankind.
Mixing Colours, a firma Roger Eno & Brian Eno, si è stratificato negli anni. Tutto ha inizio quando Roger elabora una serie di brani, li incide utilizzando una tastiera MIDI e invia i file digitali a Brian. Sinergicamente, dinamicamente, il progetto prende quota. Le prime composizioni, pensate per far parte di un nucleo di lavori più ampio, sono più o meno datate 2005. L’ipotesi di un unico album, intestato a entrambi, prende forma insieme a un sempre più nutrito numero di pezzi e a risultati vieppiù appaganti.
Roger Eno: all keyboards, Brian Eno: programming and sound design. Le note di Mixing Colours dicono già tutto: al fratello più piccolo, l’onore e l’onere di decidere ogni singolo cromatismo sonoro; al fratello più grande il compito di contestualizzarlo e concettualizzarlo. Quieto, rilassante, umbratile, atmosferico; legato a doppio filo al concetto di isola, approdo, paesaggio naturale, Mixing Colours è musicoterapeutico ai massimi livelli nonché dolce fusione di ambient music e new age. Laddove è Roger Eno a dettare le regole del gioco, il suo pianoforte non esita a citare Erik Satie e Claude Debussy dando linfa a Spring Frost, Burnt Umber, Verdigris, Rose Quartz. E ogni volta che il minimalismo si sublima in un’aura di sacralità ecco delinearsi Obsidian, mentre solenni e “antiche” sono le melodie che sottolineano Blonde, Dark Sienna e Iris, delineando nostalgie care a Franz Schubert.
Quando è invece Brian Eno a padroneggiare i cromatismi, ecco gli spot sonori di Wintergreen che si tramutano in gocce di rugiada; la musica ambientale di Snow e di Quicksilver che si traduce in landscape; Ultramarine, Cinnabar, Desert Sand, Cerulean Blue, ma in particolare l’inconfutabile bellezza di Celeste, che si trasformano in ipotetiche colonne sonore, sublime music for films. E l’empatìa fra i 2 Eno è più che mai cosa buona e giusta nella traccia finale, Slow Movement: Sand, che ha il pregio di ricondurre la musica ai suoi elementi essenziali: colore, timbro, pulsazione.