Noi di CoolMag non siamo certo indovini, ma stavolta abbiamo fatto centro con 7 mesi d’anticipo. Louise Glück si è aggiudicata il Nobel per la Letteratura e con un pizzico di orgoglio vi riproponiamo questa “divagazione” di Nepo Doppeltec scritta il 18 marzo 2020. Buona lettura!
Stavolta la combino grossa: mi metto a divagare sulla poesia contemporanea. Lo so benissimo che gli italiani che leggono regolarmente libri sono una minoranza e quelli che leggono anche poesia un’esigua minoranza della minoranza. E allora? Io ho sempre continuato a leggere poesia, anche se riesco a farlo meno di quanto vorrei; ma insisto testardamente, e quando posso frequento amici con la stessa passione. E non lo faccio per snobismo, ma per necessità. Nella mia infanzia dorata possedevo una memoria che mi permetteva di imparare poesiole e filastrocche dopo una sola lettura. Ora non riesco a tenere a mente neppure i versi che amo di più, ma la passione per quella forma di scrittura che più si avvicina alle misteriose leggi della musica non è mai venuta meno.
Louise Glück è un nome pressoché sconosciuto in Italia: nata nel 1943 a New York in una famiglia di immigrati ebrei ungheresi, è oggi una signora americana che insegna alla Yale University. Ma alle sue spalle c’è un passato piuttosto tormentato con crisi di anoressia e difficili rapporti con i familiari. Ha cominciato a scrivere versi molto giovane, formandosi alla scuola di un’altra poetessa newyorkese, Leonie Adams. Pur avendo pubblicato numerose raccolte, la Glück ha raggiunto una certa notorietà in patria solo nel 1993, vincendo il Premio Pulitzer con il volume The Wild Iris (L’iris selvatico), l’unico tradotto in Italia prima dell’uscita di Averno. Responsabile di entrambe le pubblicazioni è Massimo Bacigalupo, straordinario traduttore oltre che noto anglista e filmaker sperimentale. E basta dare un’occhiata alle prime pagine della poetessa per capire la difficoltà e ammirare la fatica dello studioso che ha cercato di trasferirle nella nostra lingua.
D’altronde alle ricerche di Bacigalupo credo di dovere molto. Penso soprattutto al lavoro compiuto su certi fondamentali rappresentanti della poesia americana moderna, come Wallace Stevens ed Ezra Pound. Quest’ultimo nome richiama alla mia mente un piccolo saggio, scritto a quattro mani con un mio compagno di liceo e pubblicato su una rivista di quell’epoca lontana: eravamo entrambi affascinati da suoi Pisan Cantos. Certo, in fatto di politica e di economia Pound aveva commesso errori grossolani (e li aveva pagati cari), ma riguardo alla poesia è un maestro indiscutibile. Noi 2, studentelli presuntuosi, ci sentivamo allora come dei pionieri, dei paladini delle avanguardie. Dopo, per fortuna, è venuto il lavoro serio e documentato di Bacigalupo.
Ora però torniamo alla nostra poetessa. La scelta del titolo è il primo segnale luminoso che invia Louise Glück: Averno è il lago di origine vulcanica che si trova nel territorio napoletano, non lontano dal Vesuvio, e che secondo i latini era la soglia attraverso la quale si entrava negli Inferi. Il personaggio che ritorna spesso nei suoi versi, in piena coerenza con il titolo, è dunque Persefone, proprio quella del mito greco: la fanciulla rapita da Ade, il dio del regno dei morti e ricercata disperatamente dalla madre Demetra, che infine ottiene da Zeus che la figlia possa tornare sulla Terra ogni anno con la bella stagione per risvegliare la natura. E così la fanciulla è destinata ad oscillare tra i 2 mondi, quello terreno e quello sotterraneo (“Una replica della terra / solo che qui c’era l’amore. / Non vogliamo tutti l’amore?”). Ma Persefone è solo un personaggio di un antico mito, non una persona, mentre nei versi della Glück ci sono anche persone: esseri viventi del mondo contemporaneo, creature ferite a morte e ritornate in vita, c’è lei stessa con le cicatrici della sua esistenza. Perché la discesa agli Inferi è un’esperienza alla portata di tutti.
“Questo è il momento in cui vedi di nuovo / le bacche rosse del sorbo selvatico / e nel cielo scuro / le migrazioni notturne degli uccelli”: è questa l’apertura della prima composizione. Al di là di ogni riferimento al mito, il lessico di questa poetessa è semplice, preciso, eppure profondo; ed è appunto questa profondità che può rendere difficile la lettura, ma offre anche un turbinare di emozioni. Il suo modo di esprimersi attraverso parole della quotidianità immerge paradossalmente nel mistero della poesia. Sembra quasi che si rivolga al lettore per dirgli: prendila come vuoi, può essere metafora o semplicemente quello che è, un albero, un tramonto, un orto, una stella. In fondo la vera poesia non chiede tanto la fatica di capirla, ma piuttosto la gioia di sentirla. Qualcosa di simile si prova davanti al linguaggio di Emily Dickinson, un punto di riferimento certo per la Glück, seppure rivissuto con la diversa sensibilità di un secolo dopo.
Non riesco a fare a meno di notare che fra le parole più utilizzate da lei ce ne sono 2 legate strettamente fra loro, ma anche in eterno conflitto: corpo e anima. La prima ha un significato facilmente condiviso e non sorprende che nei suoi versi alluda alla carne, al dolore fisico e alla sensualità. Invece la seconda è una parola difficile, ambigua, impalpabile, che sfuma in tanti significati diversi. E non è sempre chiaro quali scelga la poetessa newyorkese, ma quello che a me è parso più illuminante proviene da un frammento del poemetto Persephone the Wanderer: “…Dicono / che c’è una spaccatura nell’anima umana / che non fu costruita per appartenere / interamente alla vita…”. D’altronde la parola anima, come attraversa l’intera storia dell’umanità (dai miti greci ai filosofi d’ogni tempo e alle teorie freudiane), così anche nella mente di ciascuno vive una continua metamorfosi.
Sulle pagine di Averno si esplora la memoria dell’autrice e anche il lettore ritrova la sua. A me è riapparso l’adolescente timido e svogliato, che all’improvviso viene sedotto dai frammenti dei lirici greci: è allora che ho scoperto il piacere di leggere poesia. E qualcosa di quell’infinita bellezza, così frantumata dallo scorrere dei secoli, deve aver lasciato segni incancellabili anche nella mente (o nell’anima?) di Louise Glück. Altrimenti non si spiega perché molti dei suoi poemetti sono formati da una grande quantità di frammenti, che s’intrecciano in modo apparentemente misterioso e si richiamano in altre pagine come echi tra le montagne. L’immaginario e la memoria spingono verso orizzonti irraggiungibili: “Sono stanca di avere le mani / lei disse / voglio delle ali…”.
Louise Glück, Averno, Libreria Dante & Descartes – Editorial Partenope, € 12
Una veduta del lago Averno