Colson Whitehead è uno dei più significativi rappresentanti della letteratura afroamericana contemporanea che ama confrontarsi con diversi generi di narrativa e stavolta ha scelto di misurarsi con il romanzo storico. Lo spazio è la sua New York, il tempo quello degli anni dal 1959 al 1964 (una stagione vissuta dai suoi padri e dai suoi nonni, dato che lui è nato nel ’69). Personaggi e vicende ovviamente sono di fantasia, ma assai credibili in quei luoghi e in quei giorni; anzi, credibilissimi pure oggi. Si tratta soprattutto di un grande canto epico dedicato ad Harlem, il quartiere nero della Uptown Manhattan.
Harlem Shuffle (titolo originale del romanzo; Il ritmo di Harlem nella versione italiana) è anche il titolo di un successo di Bob & Earl, un duo vocale soul proprio di quegli anni. Ma cosa vuol dire la parola “shuffle”, da sempre molto usata nello slang del popolo nero? Più o meno sta per confusione, miscela, cioè quella mescolanza di ritmi, suoni e tradizioni provenienti da ogni dove e variamente shakerati, che in qualche modo rappresentano la filosofia del jazz. Non a caso è una parola presente fin dalle origini in parecchi titoli di classici (Mushmouth Shuffle di Jelly Roll Morton, Riverboat Shuffle di Bix Beiderbecke, Texas Shuffle di Count Basie). Per un inguaribile jazzofilo di vecchia data come me, quel titolo è già un invito irresistibile.
Il protagonista, Ray Carney, è nato e cresciuto ad Harlem e ne porta i segni indelebili. Figlio di un malavitoso, ma deciso a non seguirne le tracce, cerca di sbarcare il lunario commerciando in mobili nuovi e usati. Il negozietto, però, non garantisce un’attività fiorente e lui si adatta a fare anche il ricettatore: niente di appariscente, cose di modesto valore che gli portano alcuni ladruncoli di quartiere, tra cui il cugino Freddie a cui Ray è molto legato fin dall’infanzia. Freddie, però, è un vero specialista nell’arte di cacciarsi nei guai e spesso riesce a inguaiare anche il povero Ray, che tiene famiglia e non vorrebbe correre grossi rischi. Certo, non vorrebbe, ma siamo ad Harlem…
Il romanzo si divide in 3 parti e in 3 diverse date (’59 – ’61 –’64); le disavventure di Ray e dei suoi poco raccomandabili compari si svolgono nel clima rovente del quartiere più disperato di Manhattan, con la sua immancabile colonna sonora. Dalle finestre di ogni casa, da ogni locale malfamato soffia il vento dei “radio days”. Le grandi orchestre di Cab Calloway o di Duke Ellington si alternano all’Apollo Theatre o nei jukebox con le stelle del rhythm & blues, mentre l’élite nera più acculturata va pazza per l’hard bop e per la nuova musica di Miles Davis. E nel frattempo scorrono ovunque fiumi di alcol e di droga.
Lo sguardo di Colson Whitehead sulla sua gente non è certo molto benevolo, né all’insegna del politically correct. Se da una parte i bianchi manifestano spudoratamente tutto il loro razzismo e la loro violenza, dall’altra i neri non nascondono la loro disperata ferocia: s’imbrogliano e si ammazzano tra di loro, si guardano con disprezzo tra arricchiti e poveracci, tra meno neri e più neri. Sono loro le prime vittime del mito americano del successo, da misurare esclusivamente con l’esibizione della ricchezza e il perbenismo di facciata. Per Whitehead nell’inferno di New York nessuno sembra in grado di salvarsi. E il suo modo di raccontarlo è scoppiettante di frasi brevi e paratattiche, di imprevisti sbalzi nel tempo e nella memoria, il tutto graffiato da un umorismo agro e spietato, che ricorda i dialoghi di certi film di Spike Lee. Non tutto nel suo stile mi appare convincente: talvolta, nella mescolanza (shuffle) di azione e immaginazione, il linguaggio si fa un po’ confuso. Ma è sempre presente una rabbiosa e irrefrenabile energia.
Tornando a Ray Carney, è continuamente risucchiato nel giro vorticoso di reati grandi e piccoli, ma alla fine la fortuna è dalla sua parte: esce indenne da una serie di avventure pericolose, nell’ultima addirittura scampando a una banda di killer al servizio di un potente miliardario bianco. Ma anche Ray può contare su un killer nero, sempre pronto a salvargli la pelle: Pepper è un vecchio amico di suo padre, che finisce per apparire il personaggio più affezionato e tenero fra le mille figure di questa storia nerissima. Gli ultimi, drammatici eventi vissuti da Ray, coincidono più meno con i giorni di una sommossa (con violenze e saccheggi) che nel 1964 scuote l’intera Harlem, a causa dell’uccisione di un ragazzo nero da parte di un poliziotto (ma guarda che novità!). Così la storia privata s’intreccia con la Storia di una grande comunità afroamericana; e il tutto sembra quasi commentato dalla solita coerente colonna sonora. Infatti qui entra in scena il sax di Ornette Coleman che abbaia e bela sullo stereo, “strappando l’ultimo rantolo dalla gola straziata della città”. E sui suoni del free jazz il clima si fa ancora più rovente. Per la verità, lo scontro finale si svolge fuori da Harlem, nella Downtown dei super ricchi; e lo sguardo spietato di Whitehead si leva sull’intera megalopoli e forse anche oltre, sull’intera tragedia degli Stati (Dis)Uniti.
Purtroppo io sono stato a New York soltanto da anziano turista, alla frustrante ricerca dei luoghi mitici che avevo conosciuto nei libri, nei film e soprattutto nelle mie musiche preferite. Ricordo ancora l’ondata di angoscia provata davanti alla voragine del World Trade Center, dove già erano all’opera per costruire le nuove Torri. La stessa angoscia è riemersa dentro di me, leggendo le pagine del romanzo in cui sono descritti (siamo nel 1964) i lavori per la costruzione delle Torri Gemelle e degli altri grattacieli che avrebbero trasformato la città, dopo l’intera distruzione di un vecchio quartiere popolare: “…erano i postumi di una rovinosa battaglia. Gli isolati brulicanti di Radio Row, i magazzini di tessuti, i negozi dei cappelli per signora e i banchetti dei lustrascarpe, le bettole, persino le tacche nel marciapiede dove i montanti dei binari erano fissati al cemento: macerie”. Ecco lo spettacolo della potenza del denaro, che cancella persino la memoria di tante vite: il macabro trionfalismo dell’Impero Americano.
Colson Whitehead, Il ritmo di Harlem, Mondadori, 360 pagine, € 20