La manciata di racconti contenuti in questo libro sono legati assieme da alcune ossessioni che appartengono all’autore ma appartenevano già a Ernest Hemingway (1899-1961),  con tutte le differenze che derivano ovviamente dalle diverse epoche in cui i 2 scrittori sono vissuti. Il che giustifica perfettamente il titolo: Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani. La prima sensazione è che queste 9 storie siano concepite in diverse stagioni della vita, ma in qualche modo cementate insieme da una coerenza che appartiene da sempre al temperamento agonistico di Antonio Franchini.

Questo napoletano (classe 1958), trapiantato fin da giovane a Milano e da sempre impegnato nel mondo dell’editoria, è solito raccontare storie partendo da se stesso, a volte narrando in prima persona, altre volte in terza, mascherandosi dietro l’eteronimo Francesco Esente. Parte dunque dai suoi ricordi, ma si ritaglia spesso un ruolo quasi appartato, da testimone, mentre i protagonisti diventano gli altri, i suoi amici o i suoi “maestri di vita”. Narra spesso di imprese in qualche modo eroiche o folli; ma, a forza di rimestare nella memoria, le sue pagine appaiono al lettore piene non tanto di azione quanto di spunti ironici e di riflessioni sull’agonismo e sull’invecchiamento, temi prediletti anche da Hemingway.

Non riesco a ricordare esattamente quando ci siamo conosciuti, ma fin da principio ci siamo scoperti con piacere le stesse passioni sportive. Innanzitutto la boxe, che io avevo brevemente esercitato prima dei 20 anni, mentre Antonio era ancora un gran frequentatore di palestre. Avevamo punti di vista molto diversi e facevamo bellissime discussioni. Io, dotato di scarso incasso, prediligevo le tecniche di difesa: schivate, colpi di rimessa, gioco di gambe; cose che a mio parere esaltano la “noble art”, sempre che non si esageri finendo nelle comiche del cinema muto. Lui invece amava il furore dei fighters, i grandi combattenti che vanno sempre avanti e non scappano mai, quelli che le danno e le prendono senza risparmio; e magari a fine carriera sono più morti che vivi, o perlomeno assai rintronati

La brillante carriera di curatore editoriale ha spinto Franchini a occuparsi più degli scritti altrui che dei propri e a pubblicare un numero limitato di libri (il precedente, Memorie di un venditore di libri, risale al 2011). O almeno questa è la mia impressione di lettore affezionato: i miei preferiti sono Acqua, sudore e ghiaccio (1998), 3 lunghi e straordinari racconti sportivi e L’abusivo (2001), un romanzo ambientato a Napoli, che narra la sua amicizia con il giovane cronista Giancarlo Siani, ucciso nel 1985 dalla camorra.

Nel 1° racconto di questo nuovo volume, Le Leonardiadi, l’io narrante è un giovane padre che segue con ansia la figlioletta impegnata nella corsa campestre e intanto riflette sul significato e sui tormenti dell’agonismo. Anch’io ho una figlia, che fin da piccola mostrava di aver ereditato i piedi veloci dalla madre e la scarsa competitività dal padre. Si è fatta convincere solo una volta, in seconda liceo, a gareggiare nei 100 metri. Io, per uno stupido impegno di lavoro, non ho assistito alla corsa e ancora provo un senso di colpa, una fitta dolorosa. Avrei voluto essere al traguardo e leggere sulla sua faccia l’incredibile sorpresa di essere arrivata prima. Non ha fatto più nessuna gara; preferiva andare a cavallo in mezzo alla natura o fare escursioni in montagna.

Qualche tempo dopo i primi incontri, io e Antonio ci siamo ritrovati nel canoismo fluviale ed è stato il periodo in cui ci siamo frequentati di più. I fiumi dei suoi racconti li ho frequentati (e amati) anch’io. Lui aveva cominciato da giovane ed era bravo. Io appena discreto e facevo solo i tratti alla mia portata; ma li facevo con l’entusiasmo di chi scopre, a botte di adrenalina, il suo sport preferito a 50 anni. Entrambi abbiamo frequentato i primi corsi sul Sesia, vero protagonista del 6° racconto (Grande fiume dai due cuori), dove Francesco Esente rischia grosso in una discesa solitaria, in cui sembra più concentrato sul doloroso ricordo di 2 amici tragicamente scomparsi che sulla corrente del fiume. Qualcuno ha parlato, non a torto, di un libro di congedi e realmente quasi in ogni storia c’è un addio, una precoce scomparsa, qualche fantasma che ritorna…

L’altro corso d’acqua, protagonista del 4° racconto, è il Soča, cioè l’Isonzo che nella prima parte scorre tra i monti della Slovenia, a ridosso della fatale Caporetto; e qui Antonio non si limita a lottare con la pagaia sulle rapide, ma compie numerosi pellegrinaggi sulle tracce della Grande Guerra e delle migliaia di vittime sacrificate in quell’inutile macello. Quel fiume, dalle acque più belle del mondo, ha segnato anche la mia storia personale: lì ho compiuto l’ultima discesa, il mio congedo dalle acque bianche, perché sentivo che la forza e i riflessi non erano più quelli di una volta. Continuo a pagaiare al mare e non mi sento molto diverso dai pensionati che passeggiano sulla spiaggia.

Antonio Franchini impegnato nel canoismo fluviale

Lo scorrere del tempo continua a togliere qualcosa della vitalità che ha reso esaltanti tante giornate del nostro corpo, ma il mulinello dei ricordi continua inesorabilmente a riproporre le imprese che si vorrebbe ripetere e, magari con alcune deformazioni mnesiche, le trasforma in qualcosa di epico, ma irripetibile. Non si può tornare indietro per ritrovare la forza, l’entusiasmo, la bellezza che man mano si perde. E allora non resta che arrendersi, guardare altrove. Oppure, come sostengono Hemingway e Franchini, continuare fino alla fine il corpo a corpo con l’ineluttabile. Gli eroi di questi racconti giocano fino in fondo con la morte, a volte sanno essere anche autoironici, ma sono troppo spietati con se stessi e dunque non si fermano. Forse sta qui il motivo delle mie discussioni con Antonio: perché giocare con la morte? Non si può giocare e basta? Anziché insistere per trovare un senso alla vita e alla morte, perché non accettare allegramente il nonsenso? Tanto, prima o poi, si va tutti incontro allo stesso traguardo.

C’è ancora spazio in questa “fiesta postemingueiana” per una vacanza di 3 ragazzi napoletani nella Cuba de Il vecchio e il mare; o per le antiche follie dei pescatori di trote nel gelo dei torrenti alpini; per una vecchia scrittrice (riconoscibilissma) che rimpiange ossessivamente la bellezza perduta; per l’inspiegabile suicidio di un pellerossa; per la delirante religione della corrida e dei suoi aficionados. Infine l’ultimo racconto, il più lungo, è la storia del vecchio lottatore e della sua ultima stagione all’interno della “famiglia” della sua palestra. Un trionfo finale del corpo, gran protagonista di questo libro: nessuno riconosce i segni della decadenza fisica come chi ha lavorato sul proprio corpo tutta la vita. Questa consapevolezza finisce con l’accoppiarsi con una specie di infantile rivolta, che porta all’eterna sfida con la morte. “Tu vuoi farmi paura? È me che volevi? Eccomi, sono qua”. Sono le ultime parole che leggo e riemergono i ricordi di un’amicizia. Dopo che ho abbandonato la canoa fluviale, io e Antonio ci siamo un po’ persi di vista “senza sapere perché, come è normale che succeda…”. Eppure lo ammetto, mi mancano quelle discussioni sul coraggio e la paura. Per fortuna ogni tanto compare un libro come questo. E io smetto di annoiarmi e ingaggio l’ennesima battaglia fra lettore e scrittore.

Antonio Franchini, Il vecchio lottatore e altri racconti postemingueiani, NNEditore, 256 pagine, € 17