Il rock ha sempre avuto i suoi bravi inni generazionali. Negli Anni ’50 Rock Around The Clock (Bill Haley) e Blue Suede Shoes (Elvis Presley); nei ’60 My Generation (Who) e Satisfaction (Rolling Stones); nei ’70 Anarchy In The UK (Sex Pistols) e London Calling (Clash). Sempre nei Seventies, glam rock imperante, All The Young Dudes fa sobbalzare non pochi cuori. Dudes = Damerini. Tutti i giovani damerini: come nella migliore accezione glamour, fra allusioni omosex e una spiccata propensione all’estetismo. La canzone, fiore all’occhiello dell’omonimo album, viene composta da David Bowie per i Mott The Hoople. Bowie, allo zenith della notorietà con l’incarnazione efebico/spaziale di Ziggy Stardust, acciuffa per i capelli la band capitanata da Ian Hunter. È un estimatore dei Mott The Hoople, e non può tollerare che dopo un pugno di dischi ai bordi dell’hard rock e del blues, nonchè un “concerto d’addio” a Zurigo, il quintetto si sciolga compromettendo ogni possibile chance di successo.

Li iscrive nelle liste glam (farà altrettanto, nei mesi successivi, con il Lou Reed di Transformer e l’Iggy Pop di Raw Power), propone a Ian Hunter il brano Suffragette City (che questi rifiuta), rilancia con All The Young Dudes (singolo ed Lp, in veste di produttore) e il gioco è fatto. All The Young Dudes, ristampato con l’aggiunta di 7 bonus tracks, punta tutto su un rock muscolare (Momma’s Little Jewel; Jerkin’ Crocus) che volentieri si fa “gayo” nel nome ancheggiante dell’estetismo “glam” (Sucker; One Of The Boys) e rende omaggio ai capostipiti dell’intero movimento decadente, i Velvet Underground, attraverso un’impeccabile rilettura di Sweet Jane astutamente collocata in apertura del disco. Ma nella storia del rock rimarrà incollato soprattutto l’inno di All The Young Dudes, che il Cd svela nella versione standard e in quella che vede duettare Bowie & Hunter.

Mott The Hoople, All the Young Dudes (1972, Columbia/Legacy)