Lo svizzero Franco Ambrosetti è 1 fra i più grandi trombettisti jazz, specialista del flicorno, europei. Splendido 80enne, capitano d’industria, è il proprietario della Zust Ambrosetti (la casa di spedizioni internazionali) ed è quantomeno particolare che un imprenditore della sua importanza sia anche uno stimato e influente jazzista che si esibisce poco dal vivo. Ma quando si presenta l’occasione, come la serata a lui dedicata lo scorso 28 marzo a Milano nell’ambito della Rassegna Jazz del Lirico, non si può certo mancare.

Franco Ambrosetti

Il concerto al Teatro Lirico Giorgio Gaber ha visto la riproposizione dello storico album Tentets, inciso nel 1985 da Ambrosetti in compagnia di solisti straordinari: su tutti Michael Brecker al sax (di cui Franco è sempre stato un grande ammiratore e sostenitore, difendendolo da critiche miopi e ignoranti), Dave Holland al contrabbasso, Tommy Flanagan al pianoforte, Daniel Humair alla batteria (vecchio amico e compagno di avventure giovanili), Lew Soloff alla tromba, Steve Coleman al sax alto (all’epoca dell’incisione ragazzo di belle speranze poco conosciuto ma già apprezzato) e Howard Johnson alla tuba e al sax baritono, solo per citare i più rappresentativi. Non potendo contare su simili sodali, Ambrosetti si è affidato alla Milano C-Jazz Band diretta da Enrico Intra che mettendosi al servizio della musica e degli arrangiamenti firmati da quel grandissimo arrangiatore che è stato l’amico fraterno George Gruntz, è riuscita nell’impresa di ricreare quelle magiche atmosfere.

Dal 1961, quando inizia a collaborare accanto a suo padre, il sassofonista Flavio, la carriera di Ambrosetti è un crescendo di riconoscimenti. Suona accanto ai più bei nomi della scena internazionale: da Dexter Gordon, a Cannonball Adderley; da George Gruntz, di cui diventa il solista principe, a Michael Brecker. Essere europeo non lo limita nel dialogo con i grandi del jazz. Anzi, ne fa la sua peculiarità inserendo nel suo stile melodico, ispirato e sempre delicato un suo tratto distintivo. Partendo dalla lezione dei grandi dell’hard bop, Clifford Brown e Lee Morgan in testa, spazia a 360° inserendo elementi della tradizione eurocolta accanto a stilemi provenienti dalle nuove tendenze. Non disdegnando il free, che pur non abbraccia, né le istanze elettriche. Si lega all’etichetta discografica tedesca Enja di Matthias Winckelmann, che gli darà carta bianca per le sue incisioni.

Tentets è un album per organico allargato, in cui accanto al suo magnifico flicorno figurano strumentisti che aderiscono perfettamente all’estetica ambrosettiana. È un disco che consacra il jazz europeo al livello dei maestri afroamericani e rimane un esempio per chiunque, nel Vecchio Continente, voglia misurarsi con quell’idioma. Il concerto milanese inizia con Yes Or No di Wayne Shorter e da subito la purezza del suono, la melodia e la delicatezza la fanno da padrone. Sostenuto magicamente dal pianoforte del grande Mario Rusca, ma infastidito da una ritmica sin troppo invadente (Tony Arco non ha certo la maestrìa e il tocco di un Daniel Humair), dopo l’iniziale difficoltà Ambrosetti porta tutta l’orchestra su climi più meditativi e introspettivi. L’orchestra si adegua e lo segue telepaticamente, fornendo un accompagnamento perfetto per esaltare il solismo impressionista di Franco.

Se nel disco originario il solo del sax tenore di Brecker è fra i momenti più alti dell’incisione, dal vivo con l’orchestra è il dialogo tra il flicorno e l’ensemble a emergere in una serie di momenti vibranti: come in Ode To A Princess, composizione di George Gruntz che viene introdotta da Franco con un commosso ricordo dell’amico. E quando imbocca il flicorno, quella malinconìa si trasforma in una serie di note cesellate ad arte; piccoli soffi di genio che partono dal cuore e che tutti noi, in platea, abbiamo applaudito. Marco Mistrangelo, al contrabbasso, svolge un lavoro egregio di raccordo fra solista e orchestra e l’atmosfera si fa rilassata: l’ideale per fare esplodere in tutto il suo potenziale il flicorno del Maestro che non si risparmia (pur se, spesso, deve ricorrere alla pomata per le labbra) regalandoci una prestazione d’altissimo livello.

Professionista serissimo, devoto al jazz come pochi altri, Franco Ambrosetti ne interpreta lo spirito d’avventura, l’iconografia, la filosofia. Non devi necessariamente essere un nero di Harlem cresciuto negli slums per essere un sincero interprete dell’arte musicale afroamericana: puoi tranquillamente essere un imprenditore svizzero con una laurea in Economia e Commercio all’Università di Basilea e credibile quanto i tuoi modelli e idoli. Di Ambrosetti ho sempre apprezzato la la passione e l’impegno di proporre una musica, sì di origine afroamericana, ma che avesse una connotazione “europea”, che si presentasse come un “dialetto” di quella comune lingua musicale che pur affondando le radici nel blues può attingere a elementi di altre latitudini e diventare un lessico famigliare per tutta la comunità del jazz. Comunità che ha accolto Tentets come esempio fra i più memorabili di quella “via europea” al jazz che proprio in Franco, in Gruntz, in Humair aveva i suoi rappresentanti più influenti ed emblematici.

Rio Morena privilegia la struttura ritmica, il dialogo serrato fra solista e orchestra ed è un esaltante momento concertistico al servizio di un hard bop sensuale, violento, fatto di acuti e sovracuti, di “give and take” con i sassofoni e un sontuoso trombone. Ten And Eleven (l’età dei 2 figli di Franco all’epoca dell’incisione) è invece un concentrato d’amore paterno: non edulcorato, ma sincero e autentico, fatto di frasi ritmicamente preziose (e qui Tony Arco si ricorda di essere un ottimo batterista) dove emerge un dialogo fitto di botte e risposte con il sontuoso pianoforte di Mario Rusca.

Salutato da grandi applausi, ci auguriamo di rivedere al più presto Ambrosetti, magari alla guida di un suo gruppo che gli dia la possibilità di liberare tutto il suo geniale talento.