Enrico Caruso (1873-1921) è stato l’artista italiano più sfruttato da Cosa Nostra. La sua voce, la sua straordinaria popolarità negli Stati Uniti, il suo repertorio leggero, hanno fatto di lui un veicolo eccezionale di affari per la criminalità organizzata. Quando nel 1903 la stella del “tenore dei tenori” cominciò a brillare anche al Teatro Metropolitan di New York, alimentando una dedizione da parte dei melomani statunitensi ancora oggi diffusa, in un primo momento la malvivenza di origine italiana che all’epoca animava un’organizzazione chiamata Mano Nera – destinata a confluire nel giro di pochi anni in Cosa Nostra – cercò di approfittare del connazionale famoso nel più spregevole dei modi. I 2 boss della Mano Nera newyorkese, Giuseppe “Joe” Morello e Ignazio Lupo, erano nativi di Corleone: il primo specializzato nella falsificazione dei dollari, il secondo con una qualifica più brutale: sospettato di 60 omicidi. Morello e Lupo erano i timonieri della comunità di Little Italy, implacabili nell’estorcere il pizzo ai commercianti e la pretesa di essere considerati dei capipopolo, con Ignazio Lupo persino responsabile della tradizionale Lotteria Italia.
Il francobollo dedicato dalla Repubblica di San Marino nel 1996 a Enrico Caruso per ‘O sole mio
La Mano Nera impose a Caruso il pagamento di 2.000 dollari, minacciandolo di morte. Il cantante stava per pagare quando sopraggiunse una seconda richiesta: 15.000 dollari. Caruso capì che stava avventurandosi in una spirale perversa e decise di affidarsi a un altro italiano, uno perbene: il sergente di polizia Joe Petrosino. Gli scagnozzi della Mano Nera finirono agli arresti e i 2 boss (Morello e Lupo) entrarono nel mirino dei servizi segreti che nell’arco di qualche anno riuscirono a incastrarli e spedirli al carcere duro. Un’esperienza che non sembrò provocare traumi in Caruso, che poco tempo dopo accordò la sua amicizia al capomafia di Chicago, Giacomo “Big Jim” Colosimo. Certo costui era un altro tipo di criminale, niente a che spartire con gli zotici Morello e Lupo: Colosimo si occupava di gioco d’azzardo e avviava bordelli di lusso, gestiva bar eleganti e ristoranti alla moda. E adorava la musica operistica. A frequentare i suoi locali era il fior fiore della lirica italiana: Amelita Galli Curci soprano milanese, Luisa Tetrazzini soprano fiorentina, Cleofante Campanini direttore d’orchestra parmigiano e, appunto, il divo Caruso tenore napoletano.
Il gangster Giacomo “Big Jim” Colosimo con la moglie, l’attrice Dale Winter
Con Colosimo ebbe sviluppo un nuovo metodo di gestire le comunità italiane d’America, non più fondato su sopruso e soggezione: Cosa Nostra sembrava prendersi cura dell’immagine della confraternita di immigrati, giocando molto sulla nostalgia incrementata in particolare attraverso la canzone, il repertorio italiano e soprattutto partenopeo. Si rafforzò negli anni 20 la consuetudine di invitare artisti italiani per lunghe tournée nelle città statunitensi che ospitavano le più nutrite comunità tricolori. Commedianti e cantanti come Farfariello e Gilda Mignonette divennero icone degli italiani d’America, con la palese sponsorizzazione di Cosa Nostra. Proprio Gilda Mignonette, definita la “regina degli emigranti”, fu addirittura oggetto di un severo provvedimento dell’FBI che dal 1941 le impedì di incidere dischi sul territorio americano perché ritenuti canali surrettizi di messaggi sovversivi. Per Cosa Nostra – da Chicago a New York, da Kansas City a Philadelphia, da Pittsburgh a Cleveland – la canzone era diventata lo strumento più efficace di aggregazione sociale. E fu proprio Enrico Caruso, pioniere della discografia, a essere il motore di tale attività dai primi decenni del secolo scorso, fungendo da formidabile cassa di risonanza del catalogo musicale partenopeo, gestito oltreoceano da Cosa Nostra.
«Gli immigrati italiani avevano bisogno delle loro canzoni e Cosa Nostra s’impossessò del magnifico repertorio napoletano, creò le proprie case editrici che ricompilavano i bollettini dei brani resi celebri nelle Americhe dai dischi di Caruso accreditando spesso nuovi autori legati all’organizzazione criminale: in questo modo i profitti delle incisioni e delle esecuzioni pubbliche restavano alla mafia americana con poche briciole o senza alcun riconoscimento per i compositori originari – spiega il direttore d’orchestra Vince Tempera – Cosa Nostra pubblicava spartiti e gestiva spettacoli ed edizioni in due negozi di Mulberry Street, la via d’accesso al quartiere newyorkese di Little Italy. I mafiosi controllavano la Società Libraria Italiana che a sua volta era la depositaria dei diritti d’autore italiani in USA col nome di Italian Book Company. Tale società si occupava di registrare le opere presso l’Ufficio del Copyright di Washington per conto dei maggiori editori italiani, da Bideri a Bixio, da La Canzonetta alla Casa E.A. Mario. Ma i numeri non sono stati mai trasparenti né soddisfacenti».
«È una problematica nata in quell’epoca ma che si è trascinata fino ai giorni nostri coinvolgendo l’intera produzione musicale italiana – dichiara l’avvocato Giorgio Assumma, che è stato presidente della SIAE dal 2005 al 2010 – Proprio negli anni in cui ero a capo della società degli autori chiesi all’ambasciatore degli Stati Uniti di intervenire. Qualcosa si mosse: poco di significativo, nulla di definitivo».
Se il repertorio lirico di Caruso era inattaccabile – risultava impossibile d’altronde anche per Cosa Nostra accreditare La donna è mobile del Rigoletto a un “Joseph Green” scovato a Manhattan – i classici napoletani resi popolari in America dai suoi dischi sono stati progressivamente plagiati, contraffatti, manipolati nei crediti in maniera spudorata. A cominciare da ‘O sole mio. La canzone depositata nel 1898 dal compositore Eduardo Di Capua con il poeta Giovanni Capurro, divenne grazie all’esecuzione discografica di Enrico Caruso del febbraio del 1916 l’inno dell’Italia nel mondo. Per poi subire una lunga serie di trasformazioni nei crediti a partire dalla fine degli anni 40, quando a governare Cosa Nostra e la comunità italiana d’America con le sue iniziative musicali erano Frank Costello con i luogotenenti Vito Genovese, Lucky Luciano e Joe Adonis: tutti gangster con la “passionaccia” per le canzoni. Erano tuttavia anni in cui l’organizzazione criminale doveva far fronte a un severo giro di vite disposto dalle autorità di polizia e dai servizi di sicurezza americani nei confronti delle famiglie mafiose.
Foto segnaletiche del gangster Joe Adonis
Per non dare nell’occhio, l’operazione discografica ‘O sole mio fu affidata ad addetti ai lavori caratterizzati da un’eccellente reputazione nel giro musicale di Broadway che subivano tuttavia il controllo del cosiddetto “sindacato ebraico”, organizzazione criminale governata da Meyer Lansky e da Bugsy Siegel, 2 banditi legati a doppio filo con Lucky Luciano e Joe Adonis. Il brano napoletano fu tradotto There’s No Tomorrow, firmato da Al Hoffman, un compositore di origine russa che figurò anche come editore, assieme all’arrangiatore Leon Carr e al paroliere Leo Corday. Nessun cenno ai veri autori italiani. Fiduciario del sindacato era anche l’interprete, l’attore Tony Martin, all’anagrafe Alvin Morris. Il disco fu pubblicato dalla RCA Victor nel 1949 e ottenne immediatamente un riscontro trionfale. There’s No Tomorrow finì anni dopo anche nei repertori di 2 illustri esecutori italoamericani: Dean Martin, partner preferito di Frank Sinatra; e Al Martino, che ebbe rapporti altalenanti con Cosa Nostra, fra l’idillio e la burrasca. Un legame che comunque promosse la sua immagine cinematografica di artista fiduciario della mafia: fu affidato a lui il ruolo di Johnny Fontane, il cantante protetto dai Corleone, ispirato a Sinatra, ne Il Padrino – Parte I e Il Padrino – Parte III.
Il retro copertina dell’album di Al Martino. L’ultimo titolo è There’s No Tomorrow, la versione di ‘O sole mio con i crediti “aggiornati”
Nel 1960 fu Elvis Presley a incidere una altrettanto popolare versione in inglese di ‘O sole mio sempre per l’etichetta RCA con il titolo It’s Now Or Never e i crediti attribuiti ancora a 2 autori vicini al sindacato: Aaron Schroeder e Wally Gold, stavolta però con l’aggiunta del nome di Di Capua (sull’etichetta del disco, ma non sulla partitura musicale).
La copertina del 45 giri It’s Now Or Never (‘O sole mio) di Elvis Presley
La partitura di It’s Now Or Never, ’O sole mio nella versione di Elvis Presley, anch’essa con i crediti per così dire “aggiornati”
Quasi identica la storia di Santa Lucia, capostipite dei capolavori napoletani, composta da Teodoro Cottrau nel 1849 e cantata originariamente in napoletano con le parole di Michele Zezza e poi in italiano, con quel “Sul mare luccica l’astro d’argento” creato da Enrico Cossovich. Già sull’etichetta del disco di Caruso inciso nel 1916, il nome del paroliere fu storpiato inizialmente in Cassovich e successivamente sostituito dal termine “Folk”. Dopo la scomparsa del tenore accadde di tutto: nel 1959 Cossovich diventò “Anonimo” e al posto di Cottrau spuntò il nome di Matteo Palardi, oscuro collaboratore del maestro Dino Olivieri, dirigente della sede milanese della casa discografica angloamericana La Voce del Padrone, che fece incidere la canzone al tenore Giuseppe Di Stefano.
A prendere definitivamente le distanze dalla storia autoriale del brano, realizzando una sorta di elaborazione non dichiarata, furono 2 autori di stanza a Brooklyn che firmarono negli anni 60 una sfilza di straordinari successi pop: Bob Brass e Irwin Levine. La coppia trasformò Santa Lucia in Little Lonely One, 45 giri che nel 1961 schizzò al vertice della hit parade statunitense nell’interpretazione di un quintetto vocale della Virginia, The Jarmels; un trionfo internazionale destinato a ripetersi nel 1965 con la cover di Little Lonely One affidata alla popstar gallese Tom Jones. Tra il disco dei Jarmels e quello di Tom Jones, nel 1963 riuscì a inserirsi Adriano Celentano con Non essere timida, dichiarata cover italiana del pezzo americano e non già del classico napoletano, con i crediti di etichetta attribuiti a Irwin Levine e a Miki Del Prete, fedelissimo collaboratore del “molleggiato”.
La copertina del disco Non essere timida del “molleggiato” Adriano Celentano
Parallelamente all’iniziativa Little Lonely One, la primordiale Santa Lucia continuò a riprodursi: nel 1964 entrò nella colonna sonora di Viva Las Vegas, film della Metro-Goldwin-Mayer diretto da George Sidney e interpretato da Elvis Presley. Fu proprio il “re del rock” a cantarla in italiano, l’unica sua canzone incisa nella nostra lingua. La musica del brano pubblicato dall’etichetta RCA Victor fu dichiarata “tradizionale”, mentre il testo italiano “Sul mare luccica l’astro d’argento…” fu attribuito ai parolieri Abner Silver e Sid Wayne, entrambi newyorkesi di origine ebraica, così come Bob Brass e Irwin Levine.
Un altro cavallo di battaglia di Caruso, La Danza – Tarantella Napolitana, fu oggetto di plagio e tramutato in una canzone che riscosse la stessa popolarità e addirittura maggior successo discografico dell’originaria. La Danza – Tarantella Napolitana era stata pubblicata nel 1835 con la musica di Gioacchino Rossini abbinata al componimento del poeta Carlo Pepoli: quell’aria resa celebre dall’incisione di Caruso del 1912 e quelle parole “Già la luna è in mezzo al mare, mamma mia, si salterà” divennero nel 1927 per la Italian Book Company di New York “C’è la luna mezzo mare“, filastrocca firmata dal marinaio siciliano Paolo Citorello, incisa per mezzo secolo con titoli diversi (Oh! Ma-Ma!, Lazy Mary, Zooma zooma, Mi vogghiu maritari) da artisti italoamericani celebri come Dean Martin, Louis Prima, Lou Monte, con milioni di dischi venduti per ogni versione e il sigillo distintivo della comunità tricolore negli States: è la canzone della festa nuziale in apertura del film Il Padrino diretto da Francis Ford Coppola nel 1972.
Al Capone era un acceso estimatore di Enrico Caruso e si vantava di averlo conosciuto personalmente qualche anno prima di diventare il “pericolo pubblico n. 1” di Chicago, quando era ancora un giovane gregario di Giacomo “Big Jim” Colosimo, il padrino che poi venne fatto assassinare proprio da Al Capone. Nel 1928 Joe Glaser, produttore artistico e socio di Al Capone nel racket della prostituzione, convinse Louis Armstrong di cui divenne in seguito il manager a incidere il brano più struggente della storia del blues: St. James Infirmary. La canzone fu inizialmente accreditata a Don Redman, arrangiatore di Armstrong, per passare successivamente nel repertorio di Irving Mills, produttore discografico newyorkese amico di Glaser e manager di Duke Ellington. St. James Infirmary era influenzata da una delle arie preferite da Al Capone («Si commuoveva ogni volta che la ascoltava», raccontò il gangster Joe Adonis): Tre giorni son che Nina, incisa 9 anni prima da Enrico Caruso che l’aveva scovata in una partitura di musica barocca. Somiglianti non solo nell’armonia: entrambi i testi fanno riferimento a malattia e morte di una persona amata.
Foto segnaletiche del boss Al Capone
La storia tuttavia insegna che non è necessario essere “uomini d’onore” italoamericani per ispirarsi ai brani leggeri divulgati nel mondo da Caruso. Nel 1966 la canzone che lanciò Caterina Caselli, da allora icona del beat italiano e poi imprenditrice discografica di successo e madre di Filippo Sugar, che è stato peraltro Presidente della SIAE, nasceva da Fenesta ca lucive, aria composta nel 1842 da Vincenzo Bellini e resa immortale dall’incisione di Caruso del 1913. A confessarlo è stato Lorenzo Pilat, triestino, il più giovane del trio autoriale Pace–Panzeri–Pilat sempre ai vertici della hit parade tra gli anni 60 e 70. «Ero affascinato da quel disco del grande Caruso. Velocizzammo la frase musicale dell’attacco e cambiammo il testo: così “Fenesta che lucive e mo nun luce”, divenne “Nessuno mi può giudicare nemmeno tu”. E vendemmo qualche milione di dischi». Anche senza Cosa Nostra.
Il compositore Lorenzo Pilat, da Tg2 Dossier Canzoni copiate, di Michele Bovi (1999)
Caruso è stato addirittura ispiratore di se stesso, ovvero di Caruso, la canzone scritta e incisa da Lucio Dalla nel 1986. Nella discografia del grande tenore non compare Dicitencello vuje, eppure Dalla volle corredare il suo brano con quella suggestiva citazione: il ritornello “Te voglio bene assaje / Ma tanto tanto bene sai./ È una catena ormai / che scioglie il sangue dint’ ‘e ‘vvene sai”. Il rischio di una denuncia per plagio era alto, così l’ufficio legale della BMG si mise in moto affidando la questione a un dirigente storico della RCA Italiana, l’avvocato-musicista Ettore Zeppegno: «L’editore di Dicitencello vuje era Luciano Villevieille Bideri», racconta. «Lo incontrammo e gli facemmo ascoltare la canzone di Dalla. Rispose che per lui era una citazione gradita perché poteva suscitare l’interesse delle nuove generazioni verso quel classico della musica napoletana. Non ci rilasciò alcuna liberatoria scritta. Caruso riscosse un successo straordinario ma nessuno mai avanzò diritti per quel ritornello d’altri tempi. La parola di Villevieille Bideri contava più di qualsiasi documento autografo». Uomo d’onore. Autentico.
La canzone Caruso eseguita da Lucio Dalla con Riccardo Caruso, pronipote di Enrico. Da Buon Natale con Frate Indovino, Raiuno, 2010 (capostruttura responsabile del programma Michele Bovi)