“Oh, non hai visto nulla, baby, fin quando non sei stata in un motel come l’Holiday Inn”
(Holiday Inn, 1971)

Con il bellissimo Tumbleweed Connection (ottobre 1970) Elton John e il suo paroliere Bernie Taupin avevano fatto un disco su un’America immaginata e idealizzata, quella dei film western e della frontiera, con vecchie foto color seppia e strade polverose con gli arbusti trasportati dal vento. 1 anno dopo, con Madman Across The Water (novembre 1971), ristampato per il cinquantennale e disponibile sin da oggi in formato box set super deluxe con 3 Cd e un Blu-ray; oppure come doppio Cd, cofanetto di 4 Lp e vinile colorato a tiratura limitata, cantavano invece il primo impatto con l’America vissuta di persona, durante i concerti al Troubadour di Los Angeles nell’agosto del 1970 e il 2° tour fra l’ottobre e il dicembre dello stesso anno. Era un’America attraversata in lungo e in largo con viaggi lunghi ed estenuanti, fatta di highways e di alberghi tutti uguali; di sole californiano e di frenesia newyorkese; di piccole storie di provincia popolate da personaggi bizzarri e di giubbotti di jeans addobbati con toppe e distintivi (come quello, cucito a mano, raffigurato in copertina).

Elton John e Bernie Taupin

Il disco che ne risultò era troppo imbevuto di States per fare breccia in Inghilterra, dove ancora oggi è abbastanza snobbato. Venne accolto decisamente meglio negli Usa, dove Elton cominciava a prendere la rincorsa per salire l’Olimpo del pop rock (Rocket Man distava solo pochi mesi). Era il suo 4° album di studio in 2 anni appena; e lui stesso si rese conto che segnava la fine della prima fase della sua carriera. Privo di hit singles capaci di portarlo all’attenzione delle masse ma con una forza compositiva, una lucidità progettuale, un suono e un immaginario di cui era impossibile non accorgersi, se solo gli si prestava attenzione. Era un diario di viaggio, una mappa di suoni e di parole che collegavano città e aree geografiche, da Ovest a East. A occhi sgranati e con la bocca spalancata, Elton e Bernie annotavano mentalmente cose mai viste prima, descrivendo nella radiosa Tiny Dancer le movenze soavi di una ragazza che viaggiava con la band e ballava sulla sabbia di Los Angeles; e in Levon un tipo newyorkese che “indossa le sue ferite di guerra come una corona”, dedito a far soldi per riscattare un’infanzia in povertà.

Erano 2 story songs aperte da un fluente e melodioso arpeggio di pianoforte, prima che entrassero in scena la voce limpida, potente e assertiva del ragazzo di Pinner; gli strumenti elettrici e la sezione ritmica; i cori e gli archi arrangiati da Paul Buckmaster. Insieme, compongono una delle sequenze iniziali più memorabili della storia del pop e Tiny Dancer, in particolare, è baciata da una grazia divina, con il sapore country rock della steel di BJ Cole e quella figura femminile che simboleggiava tutte le ragazze sexy, abbronzate e sorridenti che i 2 avevano incontrato per strada, nei bar, nei ristoranti e nei negozi del Sunset Strip. All’inizio non la notarono in tanti e sono dovuti passare quasi 30 anni prima che le fosse resa piena giustizia. È accaduto nel 2000 con una scena chiave del film Almost Famous (Quasi famosi) di Cameron Crowe: quella in cui tutti i passeggeri del tour bus di un gruppo rock allo sbando si mettono a cantarla dimenticando per un attimo tensioni, malinconie e brutti pensieri. Oggi, ci ricordano le note di copertina della ristampa, è il brano di Elton più richiesto sulle piattaforme di streaming dopo Your Song e Rocket Man.

I provini inclusi in questa riedizione confermano un fatto assodato: le qualità di one man band di Elton John, perfettamente capace di reggere da solo lo show facendo affidamento solo sulla sua voce e sul suo pianoforte. Ma il cast di musicisti di primissima scelta assemblato dal produttore Gus Dudgeon — i chitarristi Chris Spedding e Caleb Quaye, la sezione ritmica degli Hookfot (Roger Pope e David Glover) compagni di scuderia alla DJM Records, Rick Wakeman in 3 canzoni, il bassista Herbie Flowers, il batterista dei Pentangle Terry Cox, la cantautrice Lesley Duncan e tanti altri, oltre a futuri e inseparabili compagni di viaggio quali Ray Cooper (percussioni), Nigel Olsson (batteria), Dee Murray (basso) e Davey Johnstone (chitarra)—  aggiunse vigore e tonalità robuste al grande affresco di Americana che stava prendendo forma negli angusti ma funzionali Trident Studios di Londra, giù nel sottoscala di un edificio sito in un anonimo vicolo di Soho.

Il viaggio di Madman proseguiva con Razor Face, una road song con un pizzico di honky tonk e Wakeman all’organo scritta, ricorda oggi Taupin, «da qualche parte nel Sud Est lungo la Route 66» immaginando un incontro in una locanda per camionisti con un tizio somigliante all’attore Warren Oates, un anziano dal viso affilato come un rasoio in cerca di qualcuno che lo aiuti a camminare e di una casa che lo accolga. Lo stesso senso di spaesamento, la sensazione di sentirsi stranieri in casa propria animava Indian Sunset, epica come un western e figurativa come un dipinto di George Catlin. Con un immaginario e una narrativa che ricordano Soldato Blu e Il piccolo grande uomo, le prime pellicole che in quello stesso periodo rileggevano l’epopea della frontiera dalla prospettiva degli indiani: “In questa terra che una volta era mia non riesco a trovare dimora”, recita il testo che Elton interpreta con fiera amarezza aprendo a cappella e che Taupin scrisse dopo avere visitato una riserva di nativi americani.

Altrettanto drammatica ma più enigmatica e strutturalmente complessa è la canzone che intitola il disco, giocata magistralmente su un riff ipnotico di piano e chitarra, sul contrasto dinamico dei volumi e sugli archi che irrompono come tuoni in un cielo perturbato, raffigurando la psiche instabile di un uomo in isolamento forzato (in prigione? In una casa di cura?) e sull’orlo della follia (non è il Richard Nixon paranoico di lì a poco invischiato nel Watergate come qualcuno aveva supposto, sostiene Taupin, pur concedendo che quel ritratto potrebbe calzargli): ancora più bella, se possibile, la alternate take registrata l’anno precedente e presente nei bonus, con il cantautore folk Michael Chapman all’acustica e un impetuoso Mick Ronson che scatena la sua Gibson in una versione di quasi 3 minuti più lunga (8’50”, in totale), probabilmente accantonata perché più simile a una jam session che a una canzone.

In Holiday Inn Elton parla invece di se stesso, della solitudine e della noia che attanagliano un rock’n’roll man come lui, sballottato fra aerei, autostrade e motel; mentre il mandolino, la strumentazione semiacustica e il coro evocano la musica gospel e la Band di Music From Big Pink, l’album che 2 anni prima aveva folgorato tanti giovani inglesi con la testa e il cuore rivolti all’America. Ingredienti simili insaporiscono Rotten Peaches, con un testo che immagina le traversie di un detenuto e degli immigrati europei che in Usa finirono a combattere la Guerra Civile, a raccogliere frutta nei campi o a spaccare pietre nei penitenziari; e la movimentata outtake Rock Me When He’s Gone, registrata e pubblicata quello stesso anno dal bluesman inglese Long John Baldry, mentre l’epilogo del disco è più introspettivo: in All The Nasties Elton risponde alle critiche e ai pettegolezzi che lo riguardano, anticipando sotto traccia la confessione di omosessualità che farà in seguito alla rivista Rolling Stone; poi, nella malinconica e crepuscolare Goodbye (voce, piano e orchestra), si accomiata dal pubblico chiedendo quasi scusa per il tempo sottratto e svelando le sue insicurezze (“sono la poesia che non fa rima”).

Cambierà tutto di lì a poco, come sappiamo, mentre sgomitando a fatica in un mercato affollato di dischi importanti e di successo Madman metterà comunque le cose in chiaro: era il “make it or break it “, l’ultima occasione per Elton John di convincere se stesso e gli altri delle sue capacità. Poco dopo lo star system lo accoglierà a braccia aperte, ma nessun disco successivo avrà il candore, lo stupore e lo slancio di quel sogno giovanile a occhi aperti proiettato sul Nuovo Mondo e sul futuro.