Usciva poco più di 51 anni fa, l’11 marzo 1970, un disco che ha raccontato un’epoca, colto l’essenza di un certo sound californiano, fotografato una famiglia geniale, disfunzionale e problematica, un meraviglioso organismo musicale a 4 teste e 4 voci in cui ognuno era abituato a fare a modo suo e a seguire la propria Musa. Déjà Vu era il 1° album di Crosby, Stills, Nash & Young: 1 californiano, 1 texano, 1 inglese e 1 canadese destinati a intrecciare i loro destini in una storia intricatissima e turbolenta.

L’etichetta discografica Rhino lo celebra oggi con una versione superdeluxe composta da 4 Cd e 1 Lp che riproducono l’album originale rimasterizzato aggiungendo ai suoi 36 minuti 38 bonus tracks inedite e quasi 2 ore di musica composte da demo, outtakes, alternate versions, bozzetti di brani poi pubblicati su dischi solisti (come Laughing di David Crosby e Birds di Neil Young) e inediti come Know You Got To Run, la prima canzone che i 4 incisero insieme il 15 luglio 1969, quando si ritrovarono nella casa che Stephen Stills aveva preso in affitto da Peter Tork dei Monkees nel quartiere losangelino di Studio City. In agosto avrebbero debuttato dal vivo a Chicago, ottenendo subito dopo un memorabile battesimo del fuoco al Woodstock Festival: Young non volle apparire davanti alle cineprese di Michael Wadleigh, ma intanto saliva sul palco con Crosby, Stills & Nash per promuovere 1 album, il 1° del trio, a cui non aveva partecipato.

Stephen Stills, Graham Nash, Dallas Taylor, David Crosby, Greg Reeves, Neil Young

È una delle tante incongruenze nella storia di un fragilissimo supergruppo in cui si incontravano e si scontravano 4 personalità distinte, diversissime, conflittuali ma irresistibilmente attratte l’una dall’altra. 4 uomini dall’aria truce e bellicosa sulla busta di Déjà Vu, con quella magnifica fotografia seppiata da “vecchia frontiera” in cui Crosby imbraccia una carabina e il batterista Dallas Taylor, accreditato nei titoli di copertina in fregi dorati assieme al bassista Greg Reeves, indossa una cartucciera mentre gli altri, abbigliati in abiti d’altri tempi come la Band o i Charlatans di San Francisco, sembrano ufficiali sudisti o coloni con lo sguardo assorto e rivolto agli orizzonti di un Nuovo Mondo.

E un Nuovo Mondo era, quello dipinto in Déjà Vu, anche se titolo e copertina parlavano di un passato e di vite precedenti che ritornano: composto come un puzzle a seguito di estenuanti e infinite sedute in sala di incisione (forse esagerando, Stills ha calcolato che a completarlo ci vollero più o meno 800 ore di studio) e concepito fra una miriade di altri impegni e progetti in un’atmosfera completamente diversa da quella in cui era nato il più solare Crosby, Stills & Nash. «Ai tempi di quel disco», ha raccontato anni fa Graham Nash al mensile britannico Mojo, «io vivevo con Joni (Mitchell), Stephen era innamorato di Judy Collins, David aveva una ragazza che adorava, Christine. Era un momento idilliaco. Qualche mese dopo, quando cominciammo a lavorare a Déjà Vu, era cambiato tutto. Io non ero più con Joni, Stephen non era più con Judy, Christine era rimasta uccisa (in un incidente d’auto) e David non sarebbe mai più stato quello di prima. E poi tutti noi sniffavamo troppa cocaina».

L’ingresso di Young, propugnato da Crosby e soprattutto da uno Stills nostalgico dei fitti dialoghi chitarristici che i 2 avevano saputo innescare ai tempi dei Buffalo Springfield, non era certo un elemento stabilizzatore (Nash: «Era come gettare una granata a mano nel vuoto»). Arrivava un altro musicista cocciuto e umorale, in un composto chimico già di per sé esplosivo e in cui Stephen, maniaco del controllo, cercava di tenere il timone del comando mentre David trovava un alleato in Graham.

Scorrendo i crediti del disco, ci si rende conto di quanto l’equilibrio fosse precario ed effimero. Nella fredda San Francisco di quel rigido inverno e in quei turni massacranti al Wally Heider Studio che si protraevano di solito dalle 2 del pomeriggio alle 4 del mattino, ognuno cantava e registrava da sé le sue canzoni mentre gli altri aggiungevano, sottolineavano e sovraincidevano secondo l’estro del momento per arrivare faticosamente, mattone su mattone, al risultato desiderato. Young, intanto, passava gran parte del tempo da solo in studio a Los Angeles, finendo per comparire in meno di metà disco. La scaletta finale sembrava pesata con il bilancino da farmacista nella miglior tradizione del Manuale Cencelli Democristiano: 2 canzoni a testa per ognuno dei 4, una cover e 1 solo credito condiviso (la conclusiva ed esuberante Everybody I Love You, forse il pezzo più dimenticato della raccolta, porta la firma congiunta di Stephen e Neil). Solo l’iniziale Carry On, sempre secondo i ricordi di Stills, venne completata in fretta (8 ore circa) facendo esplodere dai solchi un sound corposo, spumeggiante, celebrativo; un invito ad andare avanti anche dopo l’amara scoperta di essere stati abbandonati contando sull’apparire di “un nuovo giorno, un nuovo modo e nuovi occhi per vedere l’alba” e sul ritorno inevitabile dell’amore.

Sono gli ideali hippie che Stephen esprimerà anche in Love The One You’re With e che qui condisce di Hammond, vigorose pennate alla 12 corde, svisate sguscianti di elettrica e una seconda parte mossa dagli amati ritmi latineggianti. L’altrettanto autobiografica 4+20, per sola voce e chitarra acustica, porta invece in superficie il suo lato più folk, malinconico e intimista, l’altro lato della medaglia in cui l’autore lamenta la sua solitudine e l’assenza di una donna al suo fianco: lui vorrebbe tenersela per il suo 1° album solista, ma gli altri lo implorano di includerla nel disco del quartetto senza toccarla minimamente.

«Nash scriveva le hit, io la roba strana», ha dichiarato spesso Crosby, e Déjà Vu ne è l’esempio perfetto. L’inglese di Blackpool confeziona i pezzi più pop, easy e accattivanti: il tenero quadretto familiare di Our House ritrae l’intimità della sua relazione amorosa con la Mitchell evocando il conforto – tutto sommato molto “borghese” – di una vita tranquilla trascorsa in compagnia dei gatti, con il camino acceso e i fiori al davanzale, mentre Graham si bea ascoltando la compagna creare le sue canzoni (Joni lo affianca in una alternate take inclusa nel cofanetto); mentre nella celeberrima filastrocca di Teach Your Children, Nash usa un altro ricordo autobiografico (il rapporto difficile con il padre) per esplorare il tema universale delle relazioni intergenerazionali in un’America sempre più spaccata tra giovani e adulti, establishment e controcultura. È una semplice folk song che amplifica il suo appeal grazie al sapore country dell’arrangiamento di Stills e alla celestiale pedal steel di Jerry Garcia (in contropartita per la sua partecipazione, il chitarrista dei Grateful Dead chiederà soltanto qualche lezione sul come armonizzare le voci: ne farà tesoro per i dischi successivi del suo gruppo, Workingman’s Dead e American Beauty).

Sono i 2 grandi successi a 45 giri del disco insieme a Woodstock, composta dalla Mitchell e qui completamente trasfigurata: mentre Joni, bloccata in albergo a New York per decisione del manager Elliot Roberts (che giudica più importante non mettere a rischio la sua partecipazione televisiva al Dick Cavett Show) guarda i reportage tv sul festival dalla sua camera d’albergo e celebra il metaforico ritorno all’Eden della 3 giorni di pace, amore e musica con una ballata lenta, estatica e punteggiata da un piano elettrico, la rilettura di CSN&Y deflagra a tutto rock in un fragore di ritmi e di chitarre che, insieme alla voce roca di Stills, rendono il messaggio ancora più esplicito, diretto e ottimista. Sarà uno dei pochi brani registrati con tutti i musicisti presenti simultaneamente in studio assieme ad Almost Cut My Hair, uno spigoloso acid rock che a Stills e a Young dà occasione di incrociare le loro 6 corde elettriche in un esaltante duello mentre l’autore, Crosby, sfoga rabbia e paranoia lanciando un proclama politico e sfoggiando i suoi lunghi capelli come la “bandiera freak” di chi non vuole arrendersi al Sistema. Le acerbe dissonanze del pezzo e del suo canto si sciolgono nell’ipnotica title track, un raga sul tema della reincarnazione che inizia con i suoi scat vocali jazzati e con un riff circolare in tema con l’argomento della canzone (la “ruota” buddhista da cui si sale e si scende assumendo sembianze corporee differenti) per poi sfociare in una seconda parte meditativa in cui si fondono voci sognanti, eteree chitarre elettriche e acustiche e l’armonica tremolante di John Sebastian dei Lovin’ Spoonful.

Come lui e lo Stills di Carry On, anche Young lega sezioni musicali diverse in Country Girl: 3, in questo caso, con 1 brano finale appena composto che segue 1 frammento già arrangiato per quartetto d’archi sul suo 1° album solista e 1 pezzo scritto ai tempi dei Buffalo Springfield ma mai utilizzato. Enigmatica e screziata dal suo tipico spleen, la canzone ha tutte le stimmate e l’umore da loner delle migliori cose del canadese ma non passerà alla storia come Helpless: lenta, strascicata, agrodolce e countreggiante ballata che evoca ricordi di infanzia in Nord Ontario e nel cui coro CSN intrecciano le loro voci nate per cantare insieme: le voci di 4 “fratelli di sangue” che solo lì, in quello spazio aereo senza limiti territoriali, sapevano trovare un linguaggio comune e un’armonia quasi trascendentale prima di planare di nuovo a terra e ricominciare a litigare in una infinita saga da soap opera con una colonna sonora straordinaria, una soundtrack che in Déjà Vu tramanda gli umori della Woodstock Generation cogliendo nell’alba radiosa ma anche nelle ombre del crepuscolo, gli slanci ideali e la dark side.